L’invito lanciato su queste pagine da Sergio Labate va preso sul serio. L’università è troppo importante per far passare sotto silenzio progetti di (contro-)riforma che mirano a disinnescarne la carica critica e a umiliarne ancora di più i lavoratori.

Ma, siccome l’atteggiamento di mero allarme è un tic già visto e sterile, articolo delle proposte che facciano da contraltare al lavorio nascosto delle commissioni governative.

Un’università in salute non è un valore solo per chi è di sinistra. Anche i conservatori e i liberali dovrebbero preoccuparsene. Un governo serio dovrebbe venire allo scoperto, non lavorare nell’ombra. Una società civile viva dovrebbe stare sempre all’erta.

Precariato e merito

Prima proposta. Il precariato è un male, soprattutto nell’accesso all’impiego. Per chi è di sinistra, è un male perché colpisce la dignità e le legittime aspettative di vita dei lavoratori. Per chi è di destra, è un male perché non produce efficienza a lungo termine. Chi s’imbarcherebbe in progetti ambiziosi e innovativi se sa che potrà perdere il lavoro dopo poco? Il precariato rende i ricercatori pavidi, conformisti e rinunciatari.

Se proprio si vuole usare la leva dei contratti a termine per evitare inefficienza, si abbia il coraggio di dire ai docenti più anziani che se la loro produttività scema forse il loro ruolo non sarà più garantito.

Seconda proposta. Il merito individuale è una favola. Per chi è di sinistra, lo è perché le condizioni sociali determinano spesso le performance individuali. Per chi è di destra, perché la ricerca scientifica nasce dal lavoro cooperativo di gruppi e individui anche non brillanti che danno un contributo al funzionamento del sistema.

Gli errori e i piccoli passi avanti di oscuri ricercatori servono. I premi Nobel non nascono dal nulla. Si debbono valutare i progressi e i meriti collettivi, non quelli individuali. Basta rincorrere geni solitari. Si debbono premiare le collaborazioni e la capacità di costruire reti, non (soltanto) il contributo individuale.

Più università

Terza proposta. Servono più università, non meno. Anche le realtà periferiche contribuiscono al sistema. E tutte le università esercitano una funzione pubblica, anche quelle private. Per chi è di sinistra, perché le periferie non debbono rimanere escluse dalla discussione pubblica. Per chi è di destra, perché le comunità esprimono culture specifiche, che l’università fa fiorire.

Corollario di questa proposta: il finanziamento pubblico a pioggia non è sempre un male. Le università vanno sostenute perché esistano, e non solo perché sono migliori o in competizione fra loro. Solo così si crea e conserva un tessuto di università che tutte insieme salvaguardano la discussione democratica.

Quarta proposta. La quantificazione dei risultati intellettuali (i ranking, gli indici citazionali, e cose del genere) è una retorica che produce effetti distorsivi nascosti. Per chi è di sinistra, è un tentativo di mercificare la cultura e di inseguire una neutralità falsa. Per chi è di destra, ostacola comunità culturali funzionanti, che giudichino i propri pari senza cedere alla cooptazione amorale, comunità autorevoli basate sul senso della propria missione e professione.

Quinta proposta. La professionalizzazione non è la funzione principale dell’università. Le aziende non possono esternalizzare la formazione del personale. Se lo fanno, rinunciano al loro ruolo nel gestire e orientare l’innovazione tecnologica e industriale. Piuttosto, debbono pretendere che l’università formi menti aperte e flessibili, non quadri disciplinati. L’ossessione per gli sbocchi professionali, nel contesto in cui viviamo, non ha alcun senso.

Ultima proposta (più un sogno che una proposta). Basta con gli stereotipi. I docenti universitari non sono vati, né esperti buoni a tutti gli usi, specialmente mediatici, né agenti del conflitto. Oscilliamo fra antintellettualismo – i docenti tutti baroni e corrotti, chi più sa più è malvagio, meglio l’università della vita – e reverenza subalterna: ci vuole sempre l’esperto, pendiamo dalle labbra dell’opinion maker, non prendiamo decisioni politiche, non corriamo il rischio di studiare, non facciamo, insomma, il nostro dovere di cittadini.

Liberiamo l’università dal discredito pregiudizievole e dalla reverenza imbalsamata. Facciamone una parte della vita democratica e culturale di un paese avanzato.

© Riproduzione riservata