- La versione di Anita, del regista Luca Criscenti, è un film anomalo, costruito in equilibrio tra la ricostruzione il passato e l’attualità della figura di Ana Maria De Jesus Riberio, più nota come Anita Garibaldi.
- Mussolini, erigendo il monumento equestre che la ricorda, volle farne una madre esemplare. Forse per questa memoria scomoda, Anita non è mai entrata a pieno titolo nel pantheon femminista.
- Eppure in realtà lei rappresentava tutto ciò che il fascismo detestava: una donna contro le regole, rivoluzionaria, internazionalista, combattente per la libertà.
C’è al mondo un solo monumento equestre di figura femminile con cavallo rampante, nella posa cioè che celebra gli eroi caduti in battaglia. Si trova a Roma, al Gianicolo, e ritrae la donna più straordinaria della storia del Risorgimento: Ana Maria De Jesus Riberio, più nota come Anita Garibaldi.
A lei Luca Criscenti ha dedicato un film anomalo, costruito in equilibrio tra la ricostruzione del passato e la sua attualità. Si chiama La versione di Anita, scritto dal regista insieme alla storica Silvia Cavicchioli e alla sceneggiatrice Daniela Ceselli, e interpretato da Flaminia Cuzzoli e Lorenzo Lavia. Da alcune settimane nelle sale e su RaiPlay.
Fin dal titolo, il film rivela la sua intenzione: rinarrare la storia di un’eroina dell’Ottocento, liberandone la voce dalle troppe sovrascritture che ne hanno appannato la figura. Offrirne un ritratto singolare, innanzitutto, fuori dall’ombra ingombrante di Garibaldi.
Ritrovare la donna dietro l’eroina, e l’eroina fuori dalla mitologia fascista della moglie e della madre, che è riuscita a insinuarsi anche nel monumento commemorativo, dove Anita è immortalata mentre cavalca stringendo il figlio al seno.
Pare sia stato lo stesso Mussolini a voler vedere inserita la figura del piccolo Menotti nella scultura in bronzo di Mario Rutelli, per farne una figura universale di madre esemplare.
La vita di Anita fu brevissima, morì a soli 28 anni, ma a raccontarla non bastano poche righe. Né forse un film intero. Che però prova a riallacciare i fili che conducono dalla nascita nel 1821 a Laguna, all’estremo sud del Brasile, attraverso l’incontro con Garibaldi nel 1839, le battaglie, le gravidanze, le fughe, fino alla morte nel 1849 nelle valli di Comacchio.
E lo fa utilizzando una varietà di espedienti narrativi: dalla fiction al materiale d’archivio, alle voci di studiose e studiosi, fino all’intervista impossibile della protagonista con il giornalista Marino Sinibaldi nella parte di se stesso.
C’è una parola che percorre, come un filo conduttore, il susseguirsi di fatti e voci, ed è «libertà». Di Anita si racconta che, fin dall’infanzia, rifiutava le regole sociali. «Era una donna libera, e lo era nel modo più semplice, più totale, più irreparabile», dice di lei nel film lo scrittore Maurizio Maggiani. A soli 14 anni viene data in sposa a un uomo molto più anziano, violento, di idee conservatrici. Il matrimonio dura pochi anni, ma difficili.
Tutto cambia quando in Brasile scoppia la rivolta farroupilha contro il potere imperiale, e Anita incontra colui che chiamerà sempre José, Garibaldi. Con cui parte, lasciando la sua città e rompendo per sempre con tutte le norme della società del suo tempo.
«Una ragazza libera e indipendente, e un corsaro venuto a combattere per la libertà dei popoli: c’erano già tutti gli ingredienti per una storia romantica straordinaria », dice Silvia Cavicchioli. I due combattono insieme tra “due mondi”, dall’America del sud all’Europa.
L’ultima impresa comune sarà la difesa della Repubblica Romana. Garibaldi, nel vederla apparire al suo fianco, incinta del quinto figlio, avrebbe dichiarato: «Questa è Anita, ora avremo un soldato in più».
Il corpo di Anita, morta nella ritirata, fu sepolto tre volte, anzi quattro. La prima volta in fretta e furia in un campo. Dopo pochi giorni, rinvenuto per caso, fu trasportata al cimitero delle Mandriole, dove rimase per dieci anni, fino a che Giuseppe Garibaldi, reduce dalla campagna vittoriosa della Seconda guerra di indipendenza, tornò in quella terra per prelevarne i resti e trasportarli nella propria città natale, Nizza. Ma il viaggio non era finito, perché Mussolini nel 1932 – nell’anno che celebrava sia il decennale della marcia su Roma sia il cinquantenario della morte di Garibaldi – volle inaugurare il monumento dedicato all’eroina dei due mondi, e il feretro fu tradotto a Roma per essere posizionato alla sua base. Forse per questa memoria scomoda, la figura di Anita non è mai entrata a pieno titolo nel pantheon femminista. Eppure, come ricorda il documentario per voce di Marino Sinibaldi, in realtà lei «rappresentava tutto ciò che il fascismo detestava»: aveva violato tutte le convenzioni dei modelli di femminilità domestica alimentati dalla propaganda; era una straniera, una rivoluzionaria, una combattente per la libertà, un’internazionalista, ciò che avrebbe fatto di lei nel Ventennio una nemica giurata del regime.
È allora tempo di riscoprire Anita, di liberarla dal ruolo troppo stretto di compagna e madre esemplare. Di ascoltare la sua versione della storia.
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