Il primo Pride fu una rivolta guidata da persone queer e trans* razzializzate, sex worker, bisessuali, persone con Hiv e working class. Ricordarlo è importante, proprio oggi che la favolosità si è trasformata in un grande spot commerciale
I Pride sono manifestazioni che stanno ritrovando una forte intersezionalità, cioè partendo da una prospettiva LGBTQIA+ abbracciano le diverse lotte come quella antispecista, disabile, sierocoinvolta, antirazzista e anticoloniale, di classe. Un approccio trasfemminista dovrebbe essere la lente attraverso cui guardare a eventi come il Pride che sono momenti di festa, ma soprattutto di lotta.
Infatti, il primo Pride fu rivolta. Fu una rivolta guidata da persone queer e trans* razzializzate, sex worker, bisessuali, con Hiv e working class in risposta a decenni di repressione e violenza da parte della polizia e dello stato. La rivolta dello Stonewall Inn – passata alla storia come l’origine del Pride – non è stata storicamente la prima insurrezione della comunità LGBTQIA+, di cui ricordiamo il riot di Cooper Do-Nuts a Los Angeles e quello al Compton’s Cafeteria a San Francisco.
Quello che successe allo Stonewall Inn quella sera d’estate tra il 27 e il 28 giugno fu quello che succedeva sempre: le forze dell’ordine fecero irruzione nel locale e iniziarono a picchiare, identificare e portare in cella chi c’era. Quello che accade di diverso fu che la comunità LGBTQIA+ insorse. Certo, magari erano favolosamente vestite, ma presto i loro abiti si sporcarono di sangue; e la musica suonava in sottofondo, perché la polizia aveva fatto irruzione durante una serata come tante. Si racconta che le drag queen cantavano e ballavano in prima linea tenendosi vicine per dare forza alle manifestanti durante le cariche della polizia. Per non indietreggiare. Ed è quello che ricordiamo oggi.
Ricordare che il Pride fu rivolta è necessario. Purtroppo la maggior parte dei pride istituzionali sono attualmente del tutto depoliticizzati, c’è una cancellazione delle radici trans*. Molti dei pride istituzionali sono dominati da uomini gay, cis, bianchi, borghesi, abili che hanno trasformato la favolosità trans* in uno spot commerciale, pregno di grassofobia e corpi normati, con la partecipazione di ambasciate, realtà legate all’ultradestra israeliana, multinazionali che lucrano sulle nostre vite, madrine eterocis considerate più accettabili di noi come portavoce e un business economico da migliaia di euro per avere un posto in “parata”. Cancellare il significato profondo del pride è una forma di violenza verso chiunque scenda in piazza per la libertà e l’autodeterminazione.
Il Comune di Bergamo ha revocato il patrocinio al Pride dopo una presa di posizione forte contro il rischio di pulizia etnica in Palestina. Posto che i patrocini delle istituzioni non dovrebbero importare, visto che contro la violenza istituzionale si scende in strada, è con amarezza che si leggono posizioni conniventi e fondamentaliste rispetto alla decisione del Pride di Bergamo. Vittoria Pellegrini di Bergamo Pride racconta: «A noi è dispiaciuto molto, non ce l’aspettavamo. Per noi è una cosa imprescindibile prendere una posizione in merito ai genocidi in corso in Congo, in Sudan e in Palestina. Per noi è stato importante fare quella comunicazione perché c’era il rischio concreto venissero portate bandiere israeliane in corteo. Occorre contestualizzare: non è una cosa contro le persone israeliane, ma rispetto lo stato di Israele e quello che rappresenta oggi quella bandiera. In questi giorni abbiamo sentito alcune persone del comune di Bergamo e sono state disponibili. Ci siamo confrontate ma non siamo riuscite a trovare un punto di accordo perché ci chiedevano di snaturare quello che portiamo in piazza».
Allo stesso modo il coordinamento Palermo Pride aderisce convintamente alla piattaforma "no Pride in genocide", ed esprime solidarietà al popolo Palestinese.
Sarebbe importante portare le voci delle persone queer e trans* palestinesi nei Pride, leggendone il comunicato o un estratto, portando in manifestazione le bandiere palestinesi e praticando quelle che sono le loro richieste. Si tratta di una presa di responsabilità dovuta in quanto persone queer europee e bianche.
Le nostre parole ed espressioni (come pride, queer visibility e queer liberation) sono spesso utilizzati nelle retoriche coloniali europee e nordamericane per misurare il cosiddetto livello di emancipazione di un popolo con frasi sui social media che recitano “prova a organizzare un Pride a Gaza”. Le persone queer e trans* palestinesi non hanno il privilegio di separare identità di genere e sessualità dalla violenza coloniale, la loro è una lotta basata sulla sopravvivenza.
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