Un po’ ovunque nel mondo trionfa il caos: per questo l’Unione europea del post voto può trovare un ruolo nel riportare ordine
Quello che è particolarmente preoccupante in questa fase della storia del mondo è che vediamo l’accumularsi di problemi molto diversi fra loro, prodotti da condizioni diverse in luoghi diversi per i quali molte parti indicano una pluralità di responsabili.
Intravediamo qualche complicato emergere di soluzioni che rimangono conflittuali e non trovano l’approvazione delle parti in causa. Rincorriamo qualche novità, qualche volta esagerandola, che nel migliore dei casi apre spiragli che non lasciano intravedere una strategia abbozzata almeno nelle sue linee generali. Non si può e non si deve chiedere agli ucraini di alzare bandiera bianca, ma nessuno, tranne forse la Cina, è in grado di chiedere a Putin di porre fine al conflitto.
La Cina è seduta lungo il corso di un fiume dove pensa, forse spera, magari progetta di vedere “passare” Taiwan, mentre la sua economia non cresce più, ma aumenta la repressione a Hong Kong. Appena riconsacrato, Putin che, come tutti gli autocrati, fonda il suo potere anche sulla promessa di ordine e sicurezza (più una rilanciata grandezza) vede la sua capitale ferita da un attacco terroristico con gravissime conseguenze.
Repressione e oppressione
La sua ricerca di un capro espiatorio nell’Ucraina come mandante non sembra funzionare, ma probabilmente ha finora impedito che gli venga chiesto conto, da un circolo ristretto che mantiene un po’ di potere intorno a lui, dell’avere ignorato la tempestiva segnalazione dell’intelligence Usa di un attacco terroristico.
La reazione israeliana all’aggressione di Hamas del 7 ottobre continua mirando a ripulire dalla presenza di terroristi i cunicoli di Gaza la cui lunghezza è stata stimata fra le 300 e le 500 miglia. Repressione e oppressione senza soluzione hanno conseguenze imprevedibili, ma non risolutive. L’aumento dell’antisemitismo è tanto inquietante quanto accertato, ma rimane deprecabile.
Il ruolo dell’Europa
Il presidente Biden, giustamente e comprensibilmente, teme che una parte non trascurabile dell’elettorato islamico Usa, finora orientato a favore dei Democratici, lo possa abbandonare decretandone la sconfitta in due/tre stati chiave in bilico e riportando alla Casa Bianca Donald Trump, certamente non un negoziatore né un pacificatore.
L’astensione Usa sul voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu a favore del cessate il fuoco è un messaggio sia a quell’elettorato sia a Israele, ma il suo impatto non va oltre il breve termine se non sarà accompagnato da veri e propri negoziati per i quali nessuno finora ha indicato le modalità iniziali e una prospettiva plausibile. Israele sembra opporsi alla soluzione dei due stati, comunque difficilissima da tradurre in pratica senza la totale smilitarizzazione di Hamas.
Nel variegato mondo dei paesi arabi peraltro non si vede grande entusiasmo per la formazione di uno stato palestinese. In questo panorama complesso caratterizzato da opzioni diverse 400 e più milioni di cittadini dell’Unione europea andranno a votare per l’istituzione democratica, l’Europarlamento che ne rappresenterà e esprimerà per cinque anni le preferenze, le aspettative, anche gli interessi.
Senza compiacermi di nessuna critica moralista/buonista, ritengo che sia non soltanto logico, ma assolutamente opportuno che le grandi famiglie politiche europee, preso atto dello stato del mondo, dei due gravi conflitti ai suoi confini, della persistenza del terrorismo di matrice islamica, procedano a una diagnosi approfondita e suggeriscano soluzioni alle quali saranno gli europei stessi a contribuire.
Sicurezza reciproca, ricostruzione materiale, ma anche di rapporti, visione di un futuro di autonomia ma anche di cooperazione: per tutto questo vale la pena di impegnarsi, sempre. Se non ora, quando?
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