- L’aggressione esterna della Russia appare come la prosecuzione con altri mezzi di una politica dell’identità fondata sui «valori tradizionali», che ha già mostrato il suo volto repressivo e autoritario all’interno dei confini della Russia.
- Però proprio le idee «conservatrici» di Putin in materia di famiglia, sessualità, religione, gli hanno attirato negli ultimi due decenni l’ammirazione dell’ultradestra europea e nordamericana. Cosa faranno oggi queste forze?
- I distinguo che molti tenteranno non possono funzionare, perché i due versanti del disegno reazionario non sono separabili tra loro. È la stessa logica identitaria quella che produce il nazionalismo aggressivo e i modelli di genere tradizionali.
C’è una posta in gioco non dichiarata e poco riconosciuta nella guerra che la Russia ha portato nel cuore dell’Europa: è il conflitto intorno ai modelli di genere e sessualità, a quella che Putin chiama «la confusione dei valori», ma che nelle democrazie liberali andrebbe sotto il nome di pluralismo delle scelte di vita.
Nella lotta che il patriarca di Mosca Kirill I, fedele alleato del Cremlino, ha definito uno scontro «metafisico» tra «il bene e il male», il nemico ha il volto colorato delle «parate gay», intese come la parte più visibile – e in questa prospettiva scandalosa – della trasformazione dei costumi e degli ordinamenti promossa dai movimenti femministi e Lgbt.
La «superiorità morale»
Vladimir Putin, da parte sua, usa difendere la superiorità morale della Russia richiamando i valori familiari, la vita religiosa e la passione patriottica come base spirituale di un modello di civiltà alternativo a un Occidente dissoluto. E il suo attivismo ideologico non si ferma ai proclami.
Sotto il suo potere si sono susseguiti provvedimenti apertamente reazionari e autoritari: restrizioni all’aborto, decriminalizzazione della violenza domestica, persecuzione delle attiviste femministe, messa al bando di organizzazioni antiviolenza, legge contro la «propaganda omosessuale».
Si comprende, perciò, cosa intendano le attiviste russe della Feminist anti-war resistance quando scrivono che l’attuale guerra viene combattuta sotto la bandiera dei «valori tradizionali» dichiarati dagli «ideologi del governo», che includono «la disuguaglianza tra uomini e donne, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, l'autodeterminazione e le azioni non sono conformi alle strette norme patriarcali».
Sembra necessario affinare gli strumenti critici di fronte a una guerra territoriale in cui l’aggressione esterna appare come la prosecuzione con altri mezzi di una politica dell’identità, carica di richiami alla «morale» e alla «civiltà», che ha già ampiamente dispiegato le sue conseguenze all’interno dei confini della Russia.
Questa partita ci riguarda da vicino. Non sono forse le idee «conservatrici» di Putin in materia di famiglia, sessualità, religione, ad avergli attirato negli ultimi due decenni l’ammirazione dell’ultradestra europea e nordamericana?
Se oggi queste forze, davanti all’invasione dell’Ucraina, si smarcano e provano a far dimenticare le loro antiche simpatie, sono altrettanto disposte a rivedere la propria posizione in quella «guerra culturale» che le oppone a promotrici e promotori dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali?
I distinguo che molti tenteranno non possono funzionare, perché i due versanti del disegno reazionario non sono separabili tra loro. È la stessa radice identitaria quella che produce il nazionalismo aggressivo e i modelli di genere tradizionali. Sconfiggere il primo significa rifiutare, nella sua totalità, la logica che lo alimenta.
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