- La crisi idrica è al centro dell’azione dell’esecutivo: il Consiglio dei ministri ha nominato Nicola Dell’Acqua nel ruolo di commissario straordinario, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini presiederà una nuova riunione della cabina di regia sulla siccità.
- Un quadro che conferma la linea già tracciata dal decreto Siccità: accentramento di poteri nelle mani del governo, opere e infrastrutture.
- Nessuna messa in discussione di un modello basato su eccessivi consumi d’acqua, nessun piano per affrontare le cause dei cambiamenti climatici, responsabili non solo della siccità, ma anche di eventi come quelli che hanno colpito l’Emilia-Romagna.
La crisi idrica è al centro dell’azione dell’esecutivo: ieri sera il Consiglio dei ministri ha nominato Nicola Dell’Acqua nel ruolo di Commissario straordinario, mentre oggi il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini presiederà una nuova riunione della cabina di regia sulla siccità.
Un quadro che conferma la linea già tracciata dal decreto Siccità: accentramento di poteri nelle mani del governo, opere e infrastrutture. Nessuna messa in discussione di un modello basato su eccessivi consumi d’acqua, nessun piano per affrontare le cause dei cambiamenti climatici, responsabili non solo della siccità, ma anche di eventi come quelli che hanno colpito l’Emilia-Romagna.
Del resto, lo stesso Salvini ha incolpato i “signori del no” che secondo lui avrebbero impedito la costruzione di dighe risolutrici. Una visione pericolosa, che può portare a provvedimenti emergenziali non solo poco utili, ma potenzialmente dannosi.
Un bilancio che non quadra
Se in un bilancio si riducono le entrate è necessario analizzare con occhio critico le uscite, e solo dopo decidere se intaccare i risparmi di riserva o lanciarsi in nuovi investimenti con l’auspicio di nuove entrate.
Lo stesso vale per i bilanci idrici, ma il decreto Siccità sembra seguire l’approccio inverso: pochissima importanza alla riduzione sistemica dei consumi d’acqua e grande enfasi a nuove (o vecchie) opere che dovrebbero, nelle intenzioni del Governo, aumentare la disponibilità della risorsa idrica.
Cibo, non mangimi
Nel decreto, il tema consumi è menzionato in termini di monitoraggio degli impieghi idrici (tramite l’istituzione di osservatori, peraltro già operativi da anni) e in un articolo dedicato al «piano di comunicazione» per fornire a cittadini e operatori le «informazioni necessarie sul corretto utilizzo» dell’acqua: informazioni che probabilmente i cittadini possiedono già da anni.
Neanche una parola sui settori che usano più acqua, a partire dal comparto agricolo che in Italia consuma circa il 60 per cento di quella disponibile, ancora largamente basato su metodi di irrigazione sempre meno compatibili con la crisi idrica. Attualmente gran parte dell’acqua è inoltre usata per irrigare coltivazioni destinate alla mangimistica come il mais, seconda coltivazione in Italia per volumi d'acqua utilizzati.
Ridurre la produzione e il consumo di prodotti animali è quindi una soluzione “win win”: sia per il clima, sia per il settore che potrebbe così puntare più sulla qualità, anziché sulla quantità.
Semplificazioni rischiose
Cuore del provvedimento sono invece le semplificazioni e i commissariamenti per la realizzazione di nuove opere come invasi, bacini o impianti di desalinizzazione.
Ma quali saranno le modalità d’individuazione degli interventi di “urgente realizzazione”? Quali i parametri scelti e i dati di riferimento? Quale partecipazione e trasparenza saranno garantite, se il decreto colpisce esplicitamente la partecipazione pubblica per tali opere? Il rischio è un proliferare di opere potenzialmente impattanti, scarsamente efficaci se non dannose.
La scarsità di piogge (o la loro concentrazione) e l’aumento dell’evaporazione fanno degli invasi una soluzione sempre più incerta rispetto al volume di acqua che possono raccogliere e conservare. Per di più, negli anni gli sbarramenti dei fiumi hanno ostacolato la funzionalità dei reticoli idrografici, fondamentale per la ricarica delle falde sotterranee: gli invasi più efficienti che esistano.
Se il governo non punta a proteggere le riserve di acqua dolce, promuove d’altro canto con entusiasmo la trasformazione di quella salata, facendo scomparire la Valutazione di Impatto Ambientale (Via) per la realizzazione d’impianti di desalinizzazione inferiori ai 200 litri al secondo.
Valutazione necessaria, dati il grande consumo energetico e l’esigenza di smaltire la cosiddetta “salamoia” prodotta dalla trasformazione dell’acqua salata: aspetti che rendono questa tecnologia costosa dal punto di vista ambientale ed economico, inadatta a rappresentare una soluzione sistemica ad ampio spettro in Italia.
Meno fonti fossili, più acqua
In un testo che sembra puntare molto sul cemento, mancano misure per rafforzare le soluzioni che la natura già offre, riconosciute dalla normativa europea in materia di suolo, acqua e biodiversità.
Sono infatti proprio gli ecosistemi naturali che permettono ai suoli di raccogliere e trattenere più umidità e all’acqua piovana di infiltrarsi, evitando anche i danni legati a “eventi estremi” sempre più frequenti.
Lo stesso vale in agricoltura: le tecniche agroecologiche e il mantenimento di aree naturali nei terreni agricoli sono essenziali per rendere i suoli più resilienti alla siccità e garantirne la produttività sul lungo periodo.
Infine, la grande assente: la lotta ai cambiamenti climatici, sebbene questi siano proprio la causa principale della scarsità idrica.
Ridurre i nostri consumi idrici e le emissioni dei gas serra, liberandoci dalla dipendenza da petrolio, gas e carbone, sono azioni necessarie – richiamate nelle otto proposte diffuse da Greenpeace per combattere la siccità – senza le quali non ci sarà nessuna “opera” efficace per proteggerci dalle conseguenze di “crisi” sempre più frequenti ed estreme.
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