- Il governo ha i numeri e quasi solo quelli. Nel senso di fondare sui rapporti di forza dentro Camera e Senato la propria andatura offrendosi fuori da lì con strategie perdenti e una squadra in parte impresentabile.
- Dalla governance del Pnrr alla distanza dall’asse franco-tedesco passando per la scure sulla sanità e la beffa del cuneo fiscale tagliato una tantum. Al netto di un conflitto d’interessi manifesto il nodo sono comportamenti incompatibili con la carica occupata.
- Il punto è che fintanto la politica continuerà a rivendicare la propria autonomia a targhe alterne non si verrà a capo di una distinzione tra quanto attiene alla sfera giudiziaria e ciò che investe la responsabilità soggettiva di una classe dirigente.
Il governo ha i numeri e quasi solo quelli. Nel senso di fondare sui rapporti di forza dentro Camera e Senato la propria andatura offrendosi fuori da lì con strategie perdenti e una squadra in parte impresentabile. Dalla governance del Pnrr alla distanza dall’asse franco-tedesco passando per la scure sulla sanità e la beffa del cuneo fiscale tagliato una tantum.
Sinora alle critiche hanno reagito declinando il successo elettorale nella versione dell’ora comandiamo noi con annessa bulimia di cariche e cadreghe. Per i problemi aperti, invece, la scelta è stata imputare difetti e ritardi a chi c’era prima imitando John Belushi che si proclama innocente ai piedi della fidanzata abbandonata all’altare.
Qui al posto delle cavallette hanno preso a bersaglio Mario Draghi e Paolo Gentiloni, da ultimo la commissione sul Covid monca delle Regioni passando per l’accusa di collusioni eversive a quattro parlamentari in visita ad un carcere. In quel frappè non poteva mancare l’evergreen sulla magistratura a tempo disposta a condizionare le prossime urne.
La tattica
Per qualche mese la tattica ha funzionato, un po’ per l’effetto novità della prima donna premier e per un campo delle opposizioni ostaggio delle sue divisioni anche se finalmente ricomposto attorno alla proposta di salario minimo. Poi qualcosa è cambiato e il clima di buone maniere condito dal racconto di un paese in spolvero si è sciolto nella calura estiva. Con un’avvisaglia. La replica parlamentare di Giorgia Meloni a ridosso dell’ultimo Consiglio Europeo.
Toni sguaiati, insolenze sulle minoranze, lo j’accuse a un libero intellettuale in un crescendo del tifo dagli spalti molto poco istituzionale. Si è arrivati così al trittico degli ultimi giorni: Santanchè-Delmastro-La Russa.
Vicende diverse sia chiaro, eppure ciascuna a suo modo capace di togliere ogni alibi a una destra ubriaca di potere. Sul merito non c’è molto da aggiungere. Secondo i più la ministra ha imbullonato una difesa destinata ad aggravarne la condizione. Non c’entra nulla il garantismo.
Al netto di un conflitto d’interessi manifesto il nodo sono comportamenti incompatibili con la carica occupata. Il punto è che fintanto la politica continuerà a rivendicare la propria autonomia a targhe alterne non si verrà a capo di una distinzione tra quanto attiene alla sfera giudiziaria e ciò che investe la responsabilità soggettiva di una classe dirigente.
In una democrazia matura quella separazione dovrebbe scattare in automatico, non per il timore della sanzione, penale o meno, ma in virtù di un’interpretazione autentica del lascito costituzionale, lì dove impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore.
Affresco italiano
“Onore” dunque. Per Leopardi il termine indicava l’assenza nel caso nostro di una «società stretta» in cui «ciascuno fa conto degli uomini e desidera farsene stimare». Tradotto, non si rispettano le regole né si abusa del potere per timore delle ritorsioni che potrebbero derivarne. Quelle regole vanno rispettate e di quel potere non si deve abusare perché più di ogni altra cosa si hanno a cuore il giudizio che la società – famiglie, amici, colleghi, semplici cittadini – coltiverà su ciascuno di noi.
Ora, è precisamente qui che l’arringa della ministra del Turismo nell’Aula del Senato, al pari della diffusione di atti secretati da parte di un sottosegretario di Stato o alle frasi gravissime della seconda carica dello Stato su un’indagine che lo tocca negli affetti finiscono per saldarsi. In una rimozione del loro mandato corredata dalla certezza che alla fine ogni accadimento debba risolversi in una pubblica archiviazione. Il tutto mi ha fatto tornare a mente un saggio di Antonio Gambino. Risale più o meno a un quarto di secolo fa.
Dunque analisi pertinenti a un altro paese, eppure con costumi e mentalità duri a dissolversi. C’erano in quelle pagine note che possono adattarsi anche al clima di adesso.
Questa in particolare: «In uno dei suoi racconti più noti (Mario e il mago) Thomas Mann…parla del “tipo umano che gli italiani, in una singolare confusione di giudizio morale ed estetico, chiamano simpatico”.
Si tratta di una notazione psicologicamente perfetta, perché ognuno di noi sa benissimo quante volte una discussione su temi seri, o gravi, viene nel nostro paese interrotta, e rimane quindi priva di ogni conclusione, perché il suo protagonista negativo (colui che ha imbrogliato, corrotto, e in alcuni casi provocato disastri finanziari o umani) viene sostanzialmente assolto in quanto definito, appunto, come “simpatico”, oppure divertente, spiritoso, o anche bello o bella.
L’estetismo
E perché, spostandoci su un piano meno quotidiano, nessuno di noi può ignorare quello che Alberto Asor Rosa definisce “il carattere militante del nostro estetismo”; vale a dire il peso che la continua “commistione tra arte e politica” ha avuto prima e dopo D’Annunzio, negli sviluppi della nostra vita collettiva”. Complicato dire meglio.
Se poi allarghiamo lo sguardo al giudizio di Goethe o Stendhal sulla nostra, degli italiani, “costante e capillare, onnipresente, litigiosità” l’affresco a modo suo si integra. Volendo completarlo ci si può rifare alla chiusa, ancora straniera, di Lord Byron, “Non so come farti comprendere un popolo che è al tempo stesso temperato e corrotto, serio nel contegno e pagliaccesco nei divertimenti, capace di impressioni e passioni che sono a un tempo improvvise e durevoli”».
Tre modelli
Giunti lì, la sintesi di Gambino precipita su un interrogativo. Lui si chiede se «per l’insieme di queste ragioni si possa davvero sostenere che solo per un caso il futurismo, come movimento culturale-politico, si sia sviluppato originariamente proprio in Italia. O non è forse vero che questa pretesa focalizzazione dell’attenzione sul futuro, considerato al di fuori di ogni legame con il presente e col passato, e identificato non nella concretezza di un progetto, ma nella vacuità del gesto violento (la pedata, la negazione per la negazione, aggiungo l’invettiva verbale promossa a stile), rivela lo stesso rapporto distorto, o anzi addirittura inesistente, con il tempo?».
Perché poi è anche questo a colpire nelle vicende citate e nei comportamenti dei loro protagonisti, una spiccata insofferenza alle regole, comprese le più basilari, condita a un’esagerata percezione di impunità che si traduce nell’arroganza del potere riassunta a suo tempo, e in forma definitiva, non già da Goethe o Stendhal, ma dal più prosaico Marchese del Grillo.
Detto ciò lascerei ai margini il giudizio sul futurismo che fu molte e contraddittorie cose. Ma se un riferimento la perorazione della ministra, il comportamento di un sottosegretario o le parole del presidente del Senato dobbiamo indicarlo, direi che sta a mezza via tra Bombolo, Torquemada e Farinacci. Col dettaglio che almeno il primo era simpatico per davvero.
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