Scampia, prima che un luogo, è un abbreviativo: denota in modo plastico ed efficace la politica ubiqua e millenaria di rendere invisibile chi è ai margini. Quella politica che ne complica e persino impedisce l’accesso alle vie che portano al centro della città. Quella che assicura, a livello psichico prima che ambientale, la separazione stagna tra il puro e l’impuro.

Tale strategia di occultamento ha come perno la costruzione di spazi insulari conchiusi, rilasciati quanto più possibile a una studiata autonomia: i loro abitanti (il crollo di un ballatoio di una delle Vele ha ucciso due persone e ferito 13, di cui sette bambini) via via si costruiscono un ordine, un’economia e una morale del tutto alternativi rispetto alla vita e alle dinamiche della città limitrofa.

Stupisce misurare l’asimmetria tra intenzione e sua attuazione quando si pensi che gli ideatori di Scampia, del quartiere Zen, di Corviale, di Laurentino 38 e di altri complessi architettonici dell’edilizia popolare, erano ebbri di un’utopia politica sovvertitrice. A cavallo degli anni Sessanta e Settanta, quei progetti di vivibilità alternativa e di massa rispondevano a una concezione dell’architettura urbana ispirati a Le Corbusier, al Razionalismo italiano, al Brutalismo e ad altri movimenti culturali dalla profonda aspirazione meliorista. L’intento era creare organismi frattalici, estensibili in base alle emergenti necessità, e rispondere così al problema dell’edilizia civile indotto dalla crescita demografica.

Vissuti in un periodo in cui ancora le arti e i mestieri si dedicavano a forgiare alternative, quegli architetti non avevano potuto prevedere il collasso del welfare state e l’estinzione di ogni vocazione egualitarista. È così che quei quartieri si sono trasformati da fortilizi di un’architettura d’avanguardia a vestigia intristite di un passato sguarnito di futuro, teatro di film e serie tv che ne fanno una sineddoche della criminalità.

Si rimprovera spesso agli architetti benintenzionati una valutazione semplicistica dei molti interessi in gioco, quindi una scarsa immunità verso l’uso deformato dei prodotti del loro ingegno. In effetti, l’architettura aspira a un ruolo che richiederebbe di coniugare il genio con l’accortezza e il calcolo politico.

Ad essa l’architetto olandese Rem Koolhaas riserva la funzione somma di concretissimo avamposto dell’immaginazione: l’architettura guarda al futuro e ambisce a piegare i posteri alla sua volontà visionaria. Koolhaas ne fa persino uno strumento anticipatore del colpo di stato, là dove l’architettura disegna quegli spazi in cui l’ordinamento politico a venire troverà un luogo naturale di realizzazione. Tanto fascinosa quanto incantata, una tale prospettiva non prende in debita considerazione la capacità dell’ordine esistente di conservare sé stesso e di rovesciare di segno anche il più innovatore degli artefatti umani.

Inutile ora ripassare in ordine i processi mediante cui la marginalizzazione finisce sempre per innestare la circolarità perversa di deprivazione economica, linguistica, morale, estetica. Né crederei utile ribadire il dato di fatto secondo cui chi cresce in quegli spazi di studiata separatezza viene giocoforza esposto a modi e modelli incistati in un meccanismo che alimenta sé stesso. Il rischio è che, per paradosso, queste considerazioni facili rafforzino lo stigma un po’ frusto della povertà produttrice di povertà e che così noi tutti se ne esca assolti e rassicurati.

Temo il cuore del problema sia un altro: dissipato il frastuono della notizia fresca, al centro urbano, progressista o meno, pesa persino l’idea di una possibile commistione con ciò che viene occultato dalla reclusione di quegli spazi. Prevale da tempo una visione della città come sequenza di circoli di privatezza, così come da tempo prevale un’economia a trazione individual-familista.

Se questo è lo sfondo, la ricetta rimane la stessa che nel caso di molte tragedie dovute all’incuria: bisogna cominciare col chiedersi in tutta sincerità a cosa davvero non siamo disposti; cos’è che, all’attuazione di soluzioni concrete, ampiamente disponibili nella letteratura scientifica e nel dibattito pubblico, ci fa preferire il consueto impasto di sdegno e commiserazione, abbellito da un fugace senso di colpa.

Questo potrebbe aiutarci a fuoriuscire da quello stato di pacificata ombelicalità per cui pretendiamo che l’ufficio inquirente trovi presto il responsabile, mentre col GPS ci assicuriamo di eludere viale della Resistenza e piazza Ciro Esposito.

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