Alla Camera va in scena il primo match tra la premier e la segretaria Pd, che stavolta dimostra di avere i riflessi pronti e segna il punto. Per lei sono ore cruciali, la scelta se candidarsi alle europee – comunque tardiva – e l’occasione della Sardegna tornata contendibile
Poteva anche finire prima di iniziare, nello spazio di un question time, lo scontro diretto futuribile, ormai sempre meno ipotetico, fra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. La premier in gran forma, con uno stile sempre pericolosamente sulla soglia del comiziaccio, aveva appena seppellito tutte le interrogazioni dell’opposizione con la solita argomentazione: è sempre tutta colpa dei governi precedenti. Invece il duello fra le due leader inizia qui.
Sul cruciale tema della sanità pubblica, che in alcune aree del paese sfiora il collasso. La segretaria chiede che sia abolito il tetto delle assunzioni. La premier risponde che quel tetto non l’ha voluto lei, sta lì dal 2009. Con i riflessi pronti Schlein infila il gol: nel 2009 c’eravate voi, lei era ministra. Il sorriso sarcastico di Meloni si gela. Chi le ha scritto quella risposta avrà passato un brutto quarto d’ora.
Dunque il primo match fra le due leader finisce, a sorpresa, a vantaggio della segretaria del Pd. Che, secondo praticamente tutti i deputati dem che sciamano dall’aula per la prima volta con un sorriso da orecchio a orecchio, si è ufficialmente lanciata alle europee. Poteva inciampare. Ha ingranato la marcia giusta.
Certo, i rischi restano tutti. Schlein deve valutare il fatto che la polarizzazione può favorire Meloni, donna dalla battutaccia sempre pronta: ma ieri l’ha clamorosamente sbagliata, dunque non è imbattibile.
Intanto le due leader procedono in parallelo rispetto ai propri partiti: entrambe non hanno ancora detto se si candideranno, entrambe sono più che tentate, forse persino decise a farlo.
La premier però non soffre le accuse di personalismo, per la natura del suo partito e per il suo stile di comando verticale. Schlein invece è a capo di un Partito democratico che maltollera l’eccesso di personalizzazione (ma elegge il suo segretario con le primarie).
Avrebbe potuto giocare d’anticipo, confrontandosi con il gruppo dirigente per spiegare e condividere le buone ragioni della sua corsa: contribuire a un buon piazzamento del Pd, oltreché al suo rafforzamento. Non l’ha fatto, e ora è tardi: è già stata messa sotto accusa preventiva da buona parte dei suoi, da Romano Prodi a Pier Luigi Bersani in giù. Il suo temporeggiare è sembrato una pericolosa prova di forza con il suo stesso partito. Ma la grinta che ha sfoderato fa ben sperare in un cambio di clima, anche all’interno del Pd, un partito consapevole che la sconfitta di Schlein sarebbe un disastro per tutta la “ditta” dem.
Restano ore cruciali per la segretaria Pd. La decisione tardiva sulle europee trasmette incertezza e malumore da Roma ai territori. Lo scontro diretto con Meloni dà fastidio a Giuseppe Conte, che per ora è solo un alleato immaginario. Lo si è visto in aula, in una replica un po’ sgangherata alla premier, alla ricerca confusionaria di slogan elettorali. Per quanto il presidente M5s assicuri di parlare spesso con Schlein, la sua competizione con la leader democratica è una strada obbligata: dovrà cercare protagonismo senza essere candidato, e non potrà fare affidamento sul suo gruppo dirigente, poco conosciuto e senzatetto a Bruxelles.
Esaspererà i toni, scavalcando ora a sinistra e ora a destra il Pd, in certi accenti sembra già tornato «Giuseppi». Trascinerà il Pd in sfide di decibel in cui è maestro: non teme di perdere la faccia. Lo si è visto sulla vicenda del no alle armi a Israele: un’affermazione senza costrutto (per legge l’Italia non fornisce armi a Tel Aviv) che passa liscia, se detta dal presidente M5s. Ma detta dalla segretaria di un partito in rete con le socialdemocrazie europee, ha un peso diverso: infatti ha smosso qualche ambasciata a chiedere spiegazioni. Conte non ha bisogno di vincere e ha anche poco da perdere. Lo si vede dalle continue fibrillazioni che imprime nelle regioni che vanno al voto, Sardegna esclusa. Ma per la Sardegna serve un discorso a parte.
Lì da subito il Pd ha scelto come interlocutore il M5s, consegnando la corsa per la presidenza a Alessandra Todde. Dall’altra parte, la destra si è rappattumata. Ma l’isola è espugnabile, sempreché il Pd anche nazionale, cioè Schlein, prenda sul serio la partita. Si tratta della prima prova del superbowling fra amministrative ed europee (si vota il 25 febbraio). Nel 2009 il Pd perse la Sardegna e Walter Veltroni prese l’occasione per dimettersi da segretario. Oggi la condizione è molto diversa, ma perdere la Sardegna, potendo vincerla, sarebbe per la segretaria la maniera peggiore di iniziare la stagione delle urne.
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