Nelle interazioni quotidiane ci portiamo dietro un bagaglio di abitudini che a volte esprimono relazioni di potere. Ma la messa in discussione dell’ingiustizia nascosta può anche essere in malafede
È sconsigliabile trarre indicazioni generali dalle proprie micro-esperienze. Così come è sbagliato denunciare l’onnipresenza di rivendicazioni woke. Le esperienze dei singoli sono ovviamente frutto di contingenze irrilevanti per gli altri. E i conflitti sui nuovi codici morali e culturali esistono (in Italia) più nella mente dei detrattori che nella realtà.
Eppure è il caso, talvolta, di sfidare questi due assunti ragionevoli e di rischiare il ridicolo proponendo al pubblico un piccolo evento di vita personale che forse riguarda questioni più grandi. O, forse, è frutto solo di un’incomprensione.
I fatti. L’aula della mia lezione, stranamente, non era libera poco prima dell’inizio. Apro la porta tre minuti prima dell’orario e c’è ancora un’altra lezione. Riprovo dopo tre minuti e la docente mi blocca sulla soglia dicendo «quattro minuti». In mezzo secondo alzo la mano mimando con le dita il numero quattro ed esco nuovamente.
Dopo qualche minuto rientro, quando la mia lezione avrebbe già dovuto essere iniziata, mentre la docente e gli studenti dell’altra lezione stanno lentamente uscendo. Attendo di lato e mi avvicino alla docente dopo che questa ha liberato lo spazio.
Senza che io dica niente, lei mi affronta dicendo a tutti che io l’avevo messa in difficoltà col mio gesto. Non capendo, le chiedo se vuole chiarire fuori dall’aula. Lei insiste ripetendo, più volte, che l’avrei offesa col mio gesto di mimare il quattro, che lei aveva diritto di stare fino alle ore 14 e che vale il principio del quarto d’ora accademico di ritardo.
Un po’ attonito e imbarazzato, intuisco di essere entrato in uno strano ginepraio e le rispondo solo che io inizio sempre in orario e che il quattro l’aveva detto lei. Protestando, stizzita e indignata, la docente esce e io inizio la mia lezione con un certo disagio.
Perché quattro minuti?
La questione è ridicolmente minuscola, frutto di banali incomprensioni della quotidianità, oppure una piccola gemma avvelenata, rappresentativa di problemi più grandi. Un osservatore esterno avrebbe potuto descrivere la situazione come un’incomprensione tra due attitudini comportamentali (una ritardataria e molto suscettibile, l’altra puntuale e formalmente impaziente). Ma ovviamente il problema non è questo.
Forse “l’affronto” di alzare la mano con quattro dita è stato interpretato dalla docente come un’intimazione “ti do quattro minuti”, sminuendo la sua autorità di fronte agli studenti.
Ripensandoci, invece, il mio gesto automatico voleva dire “okay, ma perché quattro minuti?”. Situazioni del genere capitano ogni tanto e si chiudono solitamente con il ritardatario che si scusa e con uno scambio di battute. Ma la reazione della docente è spropositata.
Nei tre minuti in cui mi accusa di averla umiliata di fronte alla sua classe, percepisco, da segnali impliciti che mi invia, che forse dietro c’è molto di più. La conferma viene dopo con un controllo sul suo profilo: attivista transfemminista post-colonial.
A questo punto nella mente e nel discorso scatterebbe una facile e ingiusta accusa contro uno stereotipo di aggressività femminista. Eppure, se proviamo a usare quello che la docente non ha usato, cioè un minimo di carità interpretativa, è evidente che ha interpretato il mio segnalare l’orario come l’invasione di un piccolo emissario del patriarcato.
Mettiamoci anche che la docente è, vengo a scoprire, ancora precaria e un po’, ma non tanto, più giovane di me, e abbiamo il quadro completo di quello che, forse, è stato percepito come un abuso fatto da chi gode di un vantaggio strutturale. Una micro-aggressione che viola lo spazio protetto di una giovane docente.
Aggredito e aggressore
Eppure, io stesso, a mia volta, mi sono sentito aggredito nell’essere accusato in pubblico di aver umiliato una persona sconosciuta a cui non avevo fatto niente. In passato, scontri di questo tipo sarebbero stati interpretati come un problema di temperamento e di cafonaggine, o con categorie come maschio menefreghista e femmina isterica (questo, sì, è patriarcale).
Oggi, invece, la battaglia sul dominio invisibile e sulla discriminazione strutturale si gioca soprattutto nella contestazione dei codici di comportamento. Invocare la reciproca cortesia o la mutua comprensione evidentemente non è sufficiente di fronte al sospetto di usare virtù tradizionali che nascondono relazioni di potere.
Quindi ben vengano le contestazioni e tutto il complicato rinegoziare su ciò che è appropriato e ciò che non lo è. Ma la micro-lezione di questo evento trascurabile è che la lotta per una battaglia sacrosanta non deve essere usata come una clava. Non tanto perché ci voglia moderazione o perché si debba tutelare la suscettibilità dell’altra parte (la mia conta molto poco), quanto perché le accuse e le rivendicazioni devono essere usate per segnalare torti e problemi reali. Se scattano come un click automatico a ciò che minimamente irrita ma non costituisce una vera ingiustizia, rischiano di compromettere il senso e l’accettabilità generale di un principio giusto.
Uscito infastidito, ho cercato di fare un’analisi del mio gesto involontario e delle motivazioni altrui. Ma anche un’analisi critica della mia tolleranza. Mi ritrovo a pensare che la docente abbia usato in malafede un’accusa che dovrebbe servire per altre questioni. La mia incapacità temperamentale di reagire sul momento, più che i principi di giustizia, mi ha impedito di fare la cosa giusta: mandarla a quel paese.
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