Una disputa che non scrive una bella pagina per la politica italiana. Ogni leader pretende di azzerare il passato, di essere il punto zero della storia. Rifondare è per l’appunto un gesto storico, così importante che rischia di annientare quei leader che sono convinti di avere sufficiente carisma per reggerne il peso e che in realtà sono fragilissimi
Da qualunque parte la si guardi, e anche esercitando uno sguardo colmo di benevolenza, la disputa tra Grillo e Conte non è una bella pagina per la politica italiana.
Ci sono certamente gli aspetti personali, che in qualche maniera costituiscono una conferma dei limiti caratteriali dei due protagonisti. Partiamo da Grillo, il quale sembra non perdere occasione per mostrare al mondo di essere il peggiore dei padri possibili (sia chiaro: ci stiamo riferendo esclusivamente al suo ruolo politico).
È noto infatti che il padre che fa più danni non è quello autoritario, ma quello incoerente. Colui che a parole sostiene di fidarsi dei propri figli ma quando arrivano le occasioni importanti torna a esercitare un dominio senza appello. C’è un celebre passaggio della Lettera al padre in cui Kafka scrive: «Dalla tua poltrona tu governavi il mondo. La tua sicurezza era così grande che potevi anche essere incoerente e tuttavia non cessavi di avere ragione».
Ecco, Grillo sembra convinto di dovere esercitare nei confronti della sua creatura politica un potere analogo: si è sistemato in poltrona, apparentemente disinteressato alle faccende, ma in realtà pronto a tornare quando ritiene non per dare consigli (come qualche volta fa Prodi, per fare solo un esempio) ma per dettare la legge, anche se tutto ciò contraddice quel che era stato detto precedentemente. Quando mi chiedono che padre vorrei essere, io rispondo sempre che l’unica cosa che so è chi non vorrei essere: il padre di Kafka. Mi pare invece che per Grillo quello sia l’unico modello della sua paternità politica.
Anche Conte – a cui bisogna concedere qualche merito in più, a partire almeno dal fatto di non manifestare l’inguaribile antipatia del padre di Kafka – dimostra tutti i suoi limiti caratteriali. Che sono dovuti essenzialmente a una delle peggiori degenerazioni della politica contemporanea: l’identificazione tra la responsabilità di un capo politico e il suo narcisismo. Un narcisismo che finisce per contagiare persino il piano storico.
Ogni leader pretende di azzerare il passato, di essere il punto zero della storia. Rifondare è per l’appunto un gesto storico, così importante che rischia di annientare quei leader che sono convinti di avere sufficiente carisma per reggerne il peso e che in realtà sono fragilissimi (chiedere per informazioni a Occhetto, Bertinotti, Renzi). Bisogna invece dare atto a Schlein di non aver ceduto a questa tentazione, anche rischiando forti rallentamenti nel processo di rinnovamento del proprio partito. Ma è soprattutto una conseguenza politica che preoccupa e, in effetti, svela definitivamente le debolezze strutturali di quel progetto politico.
Paradossalmente, sia l’uno che l’altro sono d’accordo su una cosa, sulla marginalità dei contenuti politici per l’identità di un partito. Grillo rivendica con orgoglio valori non negoziabili che sono tutto eccetto che valori politici. Ricadendo nella presunzione ingegneristica del primo movimento, quando la questione legittima della crisi della politica e del rinnovamento delle classi dirigenti veniva risolta in modo esclusivamente formale: indicando semplicemente procedure differenti di rappresentanza e di partecipazione ma disinteressandosi completamente alla questione politicamente fondamentale di cosa si dovesse rappresentare.
Come è stato più volte detto anche su questo giornale, l’unico modo per risolvere la questione morale non è fornire delle regole formali che limitino la tracotanza dei politici, ma è vincolarli a idee e valori politici. Dove la politica si prende la sua rivincita, lì la questione morale verrà risolta, non il contrario. Se l’identità di un partito è ridotta a poche regole del tutto impolitiche, quell’identità evidentemente non c’è mai stata.
Conte invece porta avanti uno strano principio di autodeterminazione, secondo cui una rifondazione implica la possibilità di mettere in discussione qualunque cosa. Se posso permettermi una battuta: io non voterei mai un partito in cui mi si dice che si può mettere in discussione tutto. Semplicemente perché non avrei certezza sul fatto che ciò per cui sto dando fiducia oggi ci sarà anche domani. Ma è anche una questione puramente logica: non si può rifondare davvero senza lasciare un qualche elemento di continuità politica, altrimenti non è la stessa esperienza che cambia, ma sono due esperienze differenti e del tutto eterogenee.
Non volendo, Conte rischia così di rappresentare per il M5s ciò che ha rappresentato per il Pd il suo nemico più acerrimo, cioè Matteo Renzi. Anche Conte in fondo accetta l’idea postdemocratica e populista secondo cui un partito altro non è che un contenitore vuoto, che può essere trasformato in funzione dei rapporti di potere che la contingenza dei momenti produce. La segreteria di Renzi ha svolto proprio questa funzione: pretendere di annientare l’identità politica e la storia di quel partito, dal momento che un partito doveva essere politicamente neutro, pronto a modificarsi in funzione del leader del momento.
Invece di rappresentare un esperimento di innovazione rispetto alle passioni tristi che animano i partiti postnovecenteschi, anche il M5s somiglia con sempre maggiore chiarezza a quei partiti, pensati sempre in rapporto con il puro presente, privati della loro storia e soprattutto depoliticizzati. Insomma, ciò che sembra mancare sia a Grillo che a Conte è il primato della politica. Che è la vera, unica questione che potrebbe far rinascere partiti degni di questo nome e capaci di superare le degenerazioni a cui forse ci stiamo rassegnando.
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