Il secondo turno delle elezioni francesi volute da Emmanuel Macron ha dato un verdetto sorprendente. Alla vigilia dello scrutinio sembrava che la sola incertezza fosse se il Rassemblement national (Rn), il partito di estrema destra di Le Pen, avrebbe avuto la maggioranza assoluta o relativa. All’annuncio dei risultati, invece, il Rn è risultato terzo in un parlamento diviso in tre blocchi, il più grande dei quali è quello della sinistra unita, il Nuovo fronte popolare. I macronisti limitano i danni e arrivano secondi, pur avendo perso ottanta deputati.

L’insuccesso del Rn si spiega con la strategia delle desistenze: in molti dei collegi in cui erano al secondo turno tre candidati, gli altri schieramenti si sono accordati per ritirarne uno dalla competizione per fare fronte comune contro il candidato dell’estrema destra.

Anche se gli elettori centristi spesso si sono astenuti (solo il 43 per cento di loro ha votato per il candidato della sinistra quando a ritirarsi era il candidato macronista, mentre il 70 per cento degli elettori di sinistra ha votato per candidati centristi), il sistema ha comunque funzionato e molti candidati Rn arrivati in testa al primo turno sono stati battuti al secondo.

Di fronte a questa sorpresa molti commentatori nostrani hanno inneggiato all’acume di Macron, lo statista la cui mossa del cavallo, lo scioglimento a sorpresa delle camere, avrebbe consentito di battere le destre. La differenza con quello che si dice oltralpe è abissale. In Francia la “Macronie” è considerata, insieme al Rn, la grande perdente. Anche la stampa amica presenta il presidente come un apprendista stregone che per calcolo personale ha precipitato il paese nel caos.

La sconfitta del presidente

Effettivamente non è chiaro come si possa ritenere che Macron sia uscito vincitore da questo azzardo. Certo, il Rn è stato sconfitto (principalmente grazie ai voti della sinistra, giova ricordarlo). Ma Le Pen lavorava per le presidenziali del 2027; la scelta di indire le elezioni anticipate ha fatto balenare la vittoria già oggi, e non essendo andata come previsto, torna a pensare al 2027, in condizioni, anche più favorevoli, con più deputati e con il 34 per cento dei voti dei francesi.

Il gruppo parlamentare centrista è più sparuto e meno coeso: molti sono stati irritati dalla decisione di Macron di indire le elezioni presa senza consultare nessuno dei pesi massimi del partito, che ormai lo considerano finito e che si posizionano per il 2027 (ricordiamo che Macron non potrà ripresentarsi).

Anche se molti si concentrano sull’eterogeneità della sinistra, in questi giorni si osserva una polarizzazione dei centristi, con l’ala destra raccolta dietro al ministro dell’interno Gérald Darmanin, e il gruppo che guarda a politiche più socialdemocratiche dietro al primo ministro Gabriel Attal.

Non è nemmeno sicuro che il partito centrista finisca per formare un solo gruppo. La sinistra, che Macron sparigliando sperava di sorprendere, si ritrova con il gruppo parlamentare più consistente, vincitrice a sorpresa delle elezioni. Insomma, il presidente ha “vinto” perché ha limitato i danni, come uno sciatore principiante e incosciente che si lancia per una pista nera e alla fine gongola perché invece di finire in coma si è solo rotto una gamba.

Ma la crisi del macronismo è più profonda. Dal 2017 Macron puntava alla distruzione di destra e sinistra moderate e alla creazione di due gruppuscoli radicali e ininfluenti agli estremi, di fatto due riserve indiane, in modo da poter governare indisturbato al centro.

Inizialmente il piano sembrava aver funzionato, con il partito socialista prosciugato e la destra gollista spinta su posizioni sempre più estreme, indistinguibili dal Rn. Ma oggi le elezioni europee e politiche ci consegnano un quadro molto diverso. Sia i socialisti sia la destra gollista danno inaspettati segnali di vitalità, la destra estrema è in posizione di forza per il 2027, e i macronisti hanno dimezzato la rappresentanza rispetto al 2017. Insomma, non si tratta solo della fisiologica usura del potere, ma del fallimento di un progetto politico di fatto finito con tre anni d'anticipo.

E ora?

Ma Macron è ancora il presidente, ed è lui a dare le carte. Da domenica scorsa siamo entrati in una fase di sospensione. Macron ha respinto le dimissioni del primo ministro Attal e prende tempo. Alcuni parlano addirittura di una nomina del nuovo primo ministro dopo le Olimpiadi.

Il Fronte popolare, avendo la maggioranza relativa, vuole che come da consuetudine l’incarico sia dato a un proprio esponente. Il sistema francese, infatti non prevede un voto di fiducia, e un presidente del Consiglio può governare anche con la maggioranza relativa, fin tanto che non è soggetto a un voto di sfiducia.

La strategia di Macron è chiara: un’unione “repubblicana” che vada dai comunisti fino alle destra gollista, lasciando fuori gli estremi radicali, il Rn e la sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Una specie di equivalente della nostra maggioranza Draghi. Il presidente ha scritto una lettera ai francesi negando la vittoria del Fronte popolare (in assenza di maggioranza assoluta), e invocando la grande coalizione.

Questa provocazione (insieme a un calciomercato sottobanco con molti deputati della sinistra contattati a volte addirittura dal presidente stesso) ha fatto infuriare la sinistra, che ha buon gioco nel ricordare come nel 2022 fosse stato Macron ad avere solo la maggioranza relativa, cosa che non aveva impedito di formare un governo che ha portato avanti l’agenda del presidente.

La palla alla sinistra

A questo punto cosa succederà dipende dal comportamento della sinistra che, ricordiamolo, ha presentato un programma unitario e fortemente progressista. Se le componenti più moderate, socialisti e Verdi cedono alle sirene di Macron, si creerà un governo con dentro tutti, che rispetto ai governi precedenti avrà qualche sfumatura social democratica, approvando qualche provvedimento simbolico.

Il Rn a quel punto dovrà solo sedersi sulla riva del fiume e aspettare il 2027, quando potrà fare campagna denunciando gli inciuci e quando gli elettori di sinistra plausibilmente sanzioneranno quella che è oggettivamente una sconfessione del responso delle urne.

L’altro scenario è un Fronte popolare che rimane unito e finisce per ottenere la nomina di un proprio primo ministro; in questo caso, per evitare un immediato voto di sfiducia da parte delle altre forze, questo dovrà necessariamente comporre un governo relativamente moderato e adottare un approccio graduale, smussando alcuni angoli del programma (ad esempio, l’aumento del salario minimo sarà plausibilmente spalmato nel tempo).

Riusciranno i litigiosi partiti che compongono il Fronte popolare a essere all’altezza? Non sarà facile, e i laboriosi negoziati di questi giorni per accordarsi sul nome da proporre come primo ministro non lasciano presagire nulla di buono. Ma nonostante le difficoltà, questo sembra l’unico scenario capace di imprimere un cambio di rotta e di provare ad impedire l’inevitabile vittoria del Rn tra tre anni.

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