In una moderna democrazia liberale, nella quale oramai da venticinque anni il processo ha assunto le forme costituzionali del modello accusatorio, l’unicità di carriera delle due diverse magistrature risulta antistorica
Nella complessità delle moderne democrazie la sola classica separazione dei poteri statuali non è più ritenuta sufficiente a garantire gli equilibri interni e la funzionalità dei sistemi.
Il principio della separazione viene conseguentemente esteso anche all’interno dei singoli poteri istituzionali. Corrisponde infatti ad una delle fondamentali esigenze della modernità quella di tenere distinti i controllori dai controllati. Questa regola essenziale non ha motivo di recedere proprio all’interno di una delle funzioni fondamentali dello Stato di diritto, ovvero nell’esercizio del potere giudiziario.
Non è infatti dato comprendere come un simile principio possa essere ancora escluso nell’ambito del processo penale, nel quale giudice e pubblico ministero, l’uno arbitro e l’altro parte del processo, possano condividere una unica carriera. Si tratta di due funzioni che solo in un modello inquisitorio e autoritario possono ritenersi portatori di un comune interesse.
In una moderna democrazia liberale, nella quale oramai da venticinque anni il processo ha assunto le forme costituzionali del modello accusatorio, l’unicità di carriera delle due diverse magistrature risulta antistorica e del tutto inadeguata alla nuova forma del processo penale in quanto disfunzionale rispetto le sue dinamiche e le sue esigenze.
Chi promuove, infatti, l’azione penale e chi ne controlla la fondatezza, ovvero giudici e pubblici ministeri, non possono appartenere ad un'unica squadra, frequentare lo stesso spogliatoio e la stessa panchina. Soggetti che appartengono ad un'unica indistinta carriera, condividendo - come è oggi - promozioni e disciplina all’interno di un unico organismo consiliare nel quale gli eletti valutano, promuovono e giudicano i loro stessi elettori, non possono svolgere funzioni che implicano necessariamente, per lo stesso funzionamento del processo penale, una contrapposizione di ruoli, di visioni e di interessi.
Né di destra né di sinistra
Si tratta a ben vedere di un criterio che non può essere definito né di destra né di sinistra in quanto costituisce un fondamento di ogni moderna democrazia liberale. La disfunzionalità di un sistema nel quale controllori e controllati appartengono ad un'unica organizzazione di potere e ad una unica amministrazione appare infatti evidente e ne sono intuitive le ragioni.
Questa proposizione non ha evidentemente nulla a che vedere con il passaggio da una funzione all’altra, attualmente resa del tutto marginale dalla normativa ordinamentale, in quanto, pure immaginando una assoluta e definitiva impossibilità di transito fra la funzione di pubblico ministero e quella di giudice, quel conflitto di interesse fra controllati e controllori che costituisce l’anomalia della unicità delle carriere, non sarebbe in alcun modo modificata.
Vi è tuttavia una ulteriore ragione che non può essere affatto trascurata che rende fondamentale la separazione. Se infatti da un lato la separazione delle carriere, realizzando la terzietà del giudice sotto un profilo ordinamentale, costituisce un elemento fondamentale per il corretto sviluppo delle dinamiche interne al giudizio, la stessa si configura all’esterno come fonte di legittimazione della giurisdizione in quanto la attuale colleganza fra giudice e pubblico ministero costituisce nel comune cittadino che entra in contatto con il processo penale un inevitabile motivo di diffidenza.
La consapevolezza che l’accusatore e colui che ne controlla l’azione e le pretese sviluppano le proprie carriere in due contesti distinti e separati costituisce un elemento fondamentale di rassicurazione e di fiducia.
La separazione delle carriere, non è dunque solo necessaria alla realizzazione di un presupposto ineludibile del processo accusatorio, ma è anche indispensabile per la credibilità della stessa magistratura e l’affidabilità del processo, in quanto favorisce la percezione di una giurisdizione immune da sovrapposizioni corporative, collocando il giudice in una posizione di terzietà anche nella sua più diffusa rappresentazione sociale.
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