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Vorrei che la voce di Valerio Mastrandrea, nelle sembianze dell’Armadillo, diventasse la mia suoneria del telefono. Ho riso tanto alla proiezione romana della prima puntata di Questo mondo non mi renderà cattivo di Zerocalcare, la serie in sei puntate su Netflix che non vedo l’ora di vedere da sola e poter rimandare indietro quando voglio per riascoltare fino allo sfinimento le frasi a cui farei l’applauso.
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L’altra sera, a Milano, la pierre Alessia Fattori Franchini mi ha invitato a cena da Aalto dove si pasteggiava col whisky Glenfiddich Yozakura – duemila euro alla bottiglia, trent’anni passati in botte di rovere americano e gli ultimi sei mesi in Giappone – e dove cucinava lo chef giapponese Takeshi Iwai, una stella Michelin.
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Il giorno dopo alle 10 mi sono concessa una proiezione al cinema Anteo, rifuggendo la palestra con Lavinia, che continuava a chiamarmi sperando che insieme ci facessimo forza. Se dovevo soffrire, allora preferivo farlo nello spirito, guardando il documentario di Erik Gandini, After work, ispirato alle ricerche sull’ideologia del lavoro del sociologo svedese Roland Paulsen.
«Ricorda che siete maschi bianchi, cis, etero, nati negli anni Ottanta. Quindi vietatissimo parlare di: sentimenti, emozioni positive, fragilità, dubbi, animali domestici. Di lavoro puoi, ma con Secco è come se parlassi di un cane nel deserto. Quindi come spunti di conversazione avanzano gossip e risse».
Vorrei che la voce di Valerio Mastrandrea, nelle sembianze dell’Armadillo, diventasse la mia suoneria del telefono. Ho riso tanto alla proiezione romana della prima puntata di Questo mondo non mi renderà cattivo di Zerocalcare, la serie in sei puntate su Netflix che non vedo l’ora di vedere da sola e poter rimandare indietro quando voglio per riascoltare fino allo sfinimento le frasi a cui farei l’applauso.
Seduti per terra, all’aperto, sui cuscini disegnati dall’autore – che poi ognuno avrebbe potuto portare a casa ma io il mio l’ho perso – di fianco a me c’erano il regista Francesco Bruni che amo dal film Tutto quello che vuoi, la comica Michela Giraud, l’attore Ludovico Tersigni – dopo Zerocalcare era il secondo con cui le ventenni volevano la foto – e poi l’attrice Pilar Fogliati che più tardi ho visto in coda per una dedica sul libro.
Il mio sadismo ha avuto la meglio quando, a pochi metri da me, ho notato la faccia apprensiva del fumettista – vero nome Michele Rech, che ho saputo aver studiato al liceo francese Chateaubriand con dei miei amici – mentre sul maxischermo venivano proiettate le prime due puntate inedite della serie.
Un applauso va anche a Netflix per aver organizzato una vera festa inclusiva al Testaccio, dentro l’Ex Mattatoio, una specie di Luna Park ispirato ai personaggi di Zerocalcare in cui gli unici bambini presenti erano ventenni, trentenni e quarantenni con birre, spritz e hamburger in mano. Al mio fianco, che rideva alle mie stesse battute, c’era Antonella Madeo che nella vita si occupa di comunicazione politica e che, a tarda serata, grazie alle sue doti da pierre, è riuscita a farmi mangiare la carbonara da Angelina A Testaccio. Se questo è il primo passo verso la corruzione dei palazzi, mi rassegno al mio destino.
Whisky a cena
L’altra sera, a Milano, la pierre Alessia Fattori Franchini mi ha invitato a cena da Aalto dove si pasteggiava col whisky Glenfiddich Yozakura – duemila euro alla bottiglia, trent’anni passati in botte di rovere americano e gli ultimi sei mesi in Giappone – e dove cucinava lo chef giapponese Takeshi Iwai, una stella Michelin.
Tra i quaranta ospiti presenti, tra cui gli imprenditori Francesco Melzi D’Eril e Felice Rusconi, al mio tavolo ho avuto in dote, oltre all’amico pierre di Moschino Andrea Caravita, anche l’esperto gastronomico Davide Bertellini che ci ha illustrato ogni piatto, dall’anguilla al risotto con gelato all’ostrica e fiori di Sakura.
Fino alla raffinata Wagyu A5 – dove A5 sta per massima qualità – evitandoci la gaffe fatta da altri che si lamentavano della carne grassa. «Con questo piatto è comprensibile pasteggiare col whisky», spiegava l’esperto mentre io già pensavo a chiamare il giorno dopo la mia nutrizionista-santa-donna Maria Cassano.
Al cinema di mattina
Il giorno dopo alle 10 mi sono concessa una proiezione al cinema Anteo, rifuggendo la palestra con Lavinia, che continuava a chiamarmi sperando che insieme ci facessimo forza. Se dovevo soffrire, allora preferivo farlo nello spirito, guardando il documentario di Erik Gandini, After work, ispirato alle ricerche sull’ideologia del lavoro del sociologo svedese Roland Paulsen.
Tante le interviste, da Noam Chomsky a Elon Musk, fino al sociologo italiano Luca Ricolfi che parlava di disoccupati volontari e con cui avrei fatto volentieri due chiacchiere. Il tema è che la maggior parte dei mestieri potrebbe scomparire nei prossimi 15 anni per via dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. E che nella nostra società il lavoro non è solo guadagno, ma anche identità dell’individuo.
In sala c’erano molti critici blasonati, qualcuno ha perfino fischiato quando sullo schermo parlava di meritocrazia l’uomo d’affari Ferdinando Businaro – in passato indagato per problemi col fisco – e sposato con l’ereditiera Rory Marzotto. Lavoro dunque sono. E quando non lavoreremo, che saremo? Come dice Zerocalcare, io non ho le risposte. Ma di sicuro conviene avere intorno più amici come Secco. E andare in palestra.
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