Succedono strane cose a Damasco. Così strane da scatenare sospetti, dietrologie plausibili perché solo con esse sono spiegabili certi misteri.

C'è un nuovo sceriffo in città, si chiama Abu Mohammad al Jolani, che significa grosso modo "il padre di Mohammad, originario del Golan”. Nella sua biografia c'è scritto che è nato 42 anni fa in una famiglia laica e panarabista di orientamento nasseriano, ma ben presto ha sposato il Jihad, militando sia in al-Qaeda, al fianco del famigerato Abu Musab al-Zarqawi, sia nello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi per poi mettersi in proprio e diventare il conquistatore di Damasco.

Uno che nel nome di battaglia ha voluto ricordare il luogo natale dei suoi avi, che lo abbandonarono in seguito all'occupazione israeliana del 1967, lo dovrebbe tenere per caro. Eppure, nonostante gli israeliani non solo abbiano preso a bombardare tutti gli arsenali siriani ma abbiano persino occupato il resto del Golan che ancora non era sotto il loro controllo, al-Jolani non ha proferito verbo.

Niente nemmeno una parola. E sì che di opportunità ne ha avute se non fa altro che rilasciare interviste e dichiarazioni per rassicurare la comunità internazionale sulle sue intenzioni moderate e in netto contrasto con la sua storia personale.

Non si è mai visto un leader con il suo profilo che accetta così supinamente la violazione del suo territorio e del suo spazio aereo. Quasi fosse un novello Gandhi mediorientale che oppone una resistenza passiva. E fosse solo il Golan.

I turchi allargano la loro presenza nell'area abitata dai curdi senza che ci sia una ferma reazione: questo è più comprensibile visto che Recep Erdogan è stato il padrino della sua ascesa. Gli stessi curdi si sono dotati di una larga autonomia nel nord del Paese e per ora non ci sono obiezioni o rivendicazioni in nome di una sovranità centrale.

Gruppi sciolti di jihadisti niente affatto folgorati dal moderatismo, compresi testardi reduci del disciolto Stato islamico, mantengono le posizioni in piccole enclave dove la fanno da padroni. Persino ai russi, in teoria acerrimi nemici, è stato già concesso a priori di conservare le loro basi militari a Latakia e Tartus, il loro sbocco nel mare caldo, il Mediterraneo. Fino a poter concludere, certo esagerando un po' ma non troppo, che Abu Mohammad controlla di fatto solo ciò che si vede da un minareto di Damasco.

Come si spiega tanta condiscendenza? Solo postulando che l'irresistibile ascesa dei jihadisti apparentemente trasformati da tigri in gattoni non sia stata altro che una messa in scena. Che tutto fosse già stato concordato a priori. Con la Turchia, con la Russia, con Israele e con il nulla osta di Donald Trump, il futuro inquilino della Casa Bianca.

Non c'è precedente nella storia di un regime, per quanto obsoleto, che si squaglia in solo tre giorni, senza tentare nemmeno un simulacro di difesa, senza qualche fedelissimo kamikaze che si immola in nome del tiranno da cui è stato nutrito.

Bashar Assad era a fine corsa. Gli alleati iraniani hanno ammesso ieri di averlo avvertito da tempo che aveva i giorni contati dopo la distruzione della milizia che più lo avete tenuto in sella in questo ultimi anni, gli Hezbollah libanesi. E allora meglio un'ordinata ritirata che uno spargimento di sangue.

Non per caso i familiari del dittatore erano riparati a Mosca già a fine novembre, quando i giochi erano fatti. E lo stesso presidente, non dimentichiamolo cresciuto in occidente, ha preferito un'ingloriosa fuga alla fine di un Saddam Hussein o di un Muhammar Gheddafi.

E, se la Siria è, come è, un puzzle, ecco che ciascuno si sta scegliendo à-la-carte le tessere di cui ha bisogno. Israele rafforza il suo confine nord controllando il Golan e il monte Hermon un baluardo naturale evidentemente non così convinto della folgorazione sulla via di Damasco dell'ex tagliagole.

Erdogan si tiene una carta bianca per vincere la partita contro i curdi-siriani, la sua ossessione perenne. Gli stessi curdi-siriani che l'occidente usò come esercito-taxi per sconfiggere lo Stato islamico e ora si trova i suoi superstiti insediati sulle poltrone più alte del Paese. Va bene che la riconoscenza non è di questo mondo, ma dobbiamo proprio fingere che non sia un nostro problema?

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