- Le regole in tema di smart working continuano a suscitare dubbi.
- Dopo la forzatura in diritto del Dpcm del settembre scorso, le linee guida pongono una serie di paletti che rendono difficoltosa l’attuazione di questa modalità di lavoro.
- Servirebbero metriche chiare per valutare la produttività del lavoro della P.A., ovunque sia svolto, piuttosto che uno smart working sguarnito delle connotazioni previste dalla legge istitutiva.
La determinazione del ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, nel ripristinare quanto più velocemente il lavoro in presenza dei dipendenti pubblici continua a far discutere.
Per protesta contro la decisione del ministro, è stato indetto uno sciopero del «personale amministrativo, informatico e con mansioni remotizzabili e telelavorabili del pubblico impiego».
Oltre ad alcune forzature normative, negli ultimi giorni sono emerse anche perplessità relative a diverse disposizioni delle linee guida per lo smart working. Può essere utile darne conto.
Le forzature normative
Sia il decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) del 23 settembre, ai sensi del quale dal 15 ottobre la modalità ordinaria di lavoro nella pubblica amministrazione (Pa) è quella in presenza, sia il decreto ministeriale dell’8 ottobre, con cui il ministro Brunetta ha dettato le regole sulle modalità organizzative per il ritorno nelle sedi di lavoro, risultano poco coerenti con alcune norme in materia di lavoro agile.
In primo luogo, lo smart working, che dall’inizio della pandemia aveva costituito la «modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni» ai sensi del decreto Cura Italia, nell’agosto 2020 è tornato a costituire «una delle modalità ordinarie» (decreto legge 104), rientrando nei binari della legge istitutiva (la numero 81 del 2017), che lo pone sullo stesso piano di altri modelli lavorativi.
Ma il Dpcm dello scorso settembre lo ha fatto di nuovo “deragliare”: qualificando il lavoro in presenza come «modalità ordinaria», ha declassato a modalità “straordinaria” il lavoro non in presenza, in contrasto con la legge istitutiva.
In secondo luogo, sempre il decreto Cura Italia ha sancito che lo smart working potesse svolgersi in forma semplificata, cioè a prescindere «dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi» previsti dalla legge del 2017.
L’uso di tale forma è stato esteso fino a quando lo smart working non fosse disciplinato dai contratti collettivi del pubblico impiego, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021, termine dello stato di emergenza (decreto legge numero 56).
Invece, l’ultimo Dpcm ne ha disposto la cessazione dal 15 ottobre, in contrasto con le norme citate. E questa è un’ulteriore forzatura.
Le spiegazioni del ministro
Nei giorni scorsi, il ministro Brunetta ha affermato che, in attesa della regolazione del lavoro agile attraverso i contratti collettivi, è «utile per le 32mila amministrazioni italiane poter contare su linee guida sullo smart working che anticipino ciò che sarà previsto nei contratti» stessi. Ma la spiegazione non è risultata del tutto convincente.
Il ministro ha voluto a ogni costo riportare in presenza tutti i dipendenti pubblici nel mese di ottobre, nonostante il permanere dello stato di emergenza, anziché attendere il 31 dicembre, data di scadenza non solo di tale stato, ma anche dello smart working in forma semplificata, come previsto dalla legge.
Peraltro, il rispetto della scadenza di fine anno avrebbe forse anche consentito di arrivare a tale data con la disciplina del lavoro agile definita mediante contratti collettivi.
In ogni caso, la soluzione-ponte delle linee guida non può essere giustificata dalla mancanza di tali contratti.
Inoltre, le linee guida dovrebbero seguire, e non precedere, i contratti collettivi, pure per non rischiare di invaderne il campo. Questa accusa è stata rivolta al ministro Brunetta, il quale ha precisato che esse riprendono punti già concordati dei contratti.
Ciò non sana comunque la forzatura rispetto alla norma che, come detto, subordina la fine dello smart working semplificato alla definizione dei contratti veri e propri: non bastano linee guida che ne anticipano alcuni contenuti.
Criticità delle linee guida
Le linee guida condizionano lo svolgimento del lavoro agile a una serie di paletti, alcuni dei quali rendono la sua fattibilità un percorso a ostacoli. E se è vero che esse sono atti di soft law, dunque non cogenti, è indubbio che l’enfasi del ministro induca una sorta di pressione al loro assolvimento.
È fondata la necessità, ribadita nelle linee guida, della «invarianza dei servizi resi all’utenza», che non possono essere penalizzati da un’attività svolta a distanza, o «un’adeguata rotazione del personale autorizzato alla prestazione di lavoro agile», così che tutti i dipendenti possano fruirne.
Mentre lascia perplessi, ad esempio, la previsione secondo cui va comunque assicurata «la prevalenza per ciascun lavoratore del lavoro in presenza».
Ciò snatura il carattere flessibile dello strumento, il cui utilizzo – in termini qualitativi e quantitativi – può essere valutato solo dall’amministrazione interessata, in relazione all’attività svolta.
Solleva inoltre dubbi il fatto che il criterio della “prevalenza” sia ripetuto con specifico riguardo ai «soggetti titolari di funzioni di coordinamento e controllo», «dirigenti» e «responsabili dei procedimenti».
Peraltro, la legge del 2015 (n. 124), in tema di riforma della Pa, prescrive che lo smart working non causi «penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera».
Le linee guida prevedono poi che «se le applicazioni dell’ente sono raggiungibili da remoto, ovvero sono in cloud, il dipendente può accedere tranquillamente da casa ai propri principali strumenti di lavoro». Questa regola va letta insieme a quella secondo cui, «per accedere alle applicazioni del proprio ente», il dipendente non può utilizzare la propria connessione internet, ma esclusivamente quella «fornita dal datore di lavoro», il quale deve assicurargli anche «idonea dotazione tecnologica».
Al di là dell’avverbio «tranquillamente», inusuale in ambito regolatorio, le condizioni previste non paiono proprio “tranquille”: se le amministrazioni non sono in grado di procurare computer, telefoni e connessione internet – presumibilmente wireless – ai propri dipendenti in smart working, anche se per pochi giorni al mese, tale lavoro non si potrà fare.
In altre parole, la gravosità dei costi, per enti i cui bilanci non sono sempre floridi, potrebbe dissuaderli dalla concessione del lavoro agile.
Infine, le linee guida paiono non tenere in considerazione che smart working non significa lavoro svolto da casa, né comporta le rigidità del “telelavoro”, ma anzi si connota per l’assenza di «precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro» e per la fissazione di obiettivi da parte del datore di lavoro.
Dunque, elemento essenziale è, da un lato, la flessibilità, dall’altro la verifica e la misurabilità dei risultati raggiunti dal lavoratore.
Pertanto, più che condizioni tali da dissuadere dallo smart working, sarebbero necessarie metriche chiare per valutare la produttività dei dipendenti della Pa, ovunque lavorino.
Non sarà che, nelle valutazioni dell’efficacia della modalità lavorativa a distanza, pesano anche i benefici per gli esercizi commerciali circostanti al luogo di lavoro, che in tale valutazione non c’entrano niente?
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