Ho letto con interesse i vostri contributi, pubblicati in questi giorni, sulla situazione delle carceri in Italia, che stimola molteplici riflessioni.

Il dibattito politico e la cronaca di quanto accaduto nel carcere di Trieste nelle scorse settimane, ampiamente documentato sulla vostra testata, devono indurre a riflettere approfonditamente sul tema delle carceri e sul ruolo del lavoro rispetto alla detenzione.

Prima di cimentarsi in valutazioni opinabili occorre muovere da numeri che opinabili non sono.

In primo luogo, va osservato che, nel nostro paese, sono in stato di detenzione circa 61mila persone, di cui il 4,3 per cento sono donne e il 31,3 per cento sono stranieri: ciò a fronte di una capienza delle strutture di circa 51.700 posti.

In questo quadro, occorre rilevare che dei detenuti oggi presenti nelle carceri italiane circa seimila usciranno dallo stato di detenzione entro un anno, e il 35,7 per cento ha un fine pena al più pari a 4 anni.

Occorre anche aggiungere che a oggi nel corso dell’anno si sono verificati 56 suicidi, un record.

Questi dati potrebbero indurre ad affrontare la questione sotto molteplici punti di vista, mettendo in luce le differenti criticità del nostro sistema detentivo.

Dovendo scegliere, per affrontare il tema, un approccio che sia all’altezza della sua delicatezza e complessità, il primo a venire in rilievo ci sembra quello del rapporto fra lavoro e stato di detenzione: non però nell’accezione puramente economicista che si rifà al filone del lavoro carcerario obbligatorio sottoremunerato a vantaggio di imprese private, o dei lavori socialmente utili, ma nel senso costituzionalmente più pregnante, che lega la funzione rieducativa della pena alla dignità del lavoro e della persona umana.

La riflessione muove dalla considerazione che il lavoro può e deve rappresentare la leva perché la detenzione svolga la funzione rieducativa che la Costituzione gli riconosce.

Non si tratta di lavoro in funzione espiatoria, ma nemmeno semplicemente di lavoro come strumento rieducativo; si tratta invece di utilizzare il lavoro come leva per rappresentare all’interno delle mura carcerarie lo strumento di riscatto sociale attraverso cui il detenuto si riabilita ed attraverso cui programma il suo futuro dopo la fine pena.

Ma nemmeno questo è sufficiente: bisogna altresì attribuire al lavoro dei detenuti una benintesa funzione economica e di pubblico interesse, sicché esso non rappresenti solo la vittoria del lavoratore contro i propri errori, ma anche uno strumento utile al mercato del lavoro e quindi alla collettività.

Un esempio di questo percorso virtuoso potrebbe essere il considerare quel 35,7 per cento di detenuti che nei prossimi 4 anni avranno finito di scontare la pena un bacino utile per fare fronte al mismatch occupazionale che affligge il nostro Paese, specialmente in alcuni settori – ad esempio quello turistico alberghiero e della ristorazione –, e in particolari periodi dell’anno.

Il punto di partenza di questo percorso è ripensare al rapporto fra stato detentivo, formazione e lavoro; nella consapevolezza che la sfida è ardua, ove si consideri che le politiche attive del lavoro stentano a decollare per lo stesso mercato “ordinario” del lavoro.

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