Queste elezioni resteranno nella storia come prova dei rischi mai superati che la democrazia porta con sé. “Fare l’America grande” significa quasi sempre la stessa cosa: ribadire la supremazia razziale bianca. L’armamentario del populismo democratico viene oggi utilizzato per una causa antidemocratica
The election day è un giorno decisivo. «O forse no: forse ci sarà una lunga battaglia nei tribunali o nelle strade o in entrambi i luoghi, se Trump deciderà che non può aver perso contro una donna “samoana e malese”; il Nemico Interno [i democratici] è così numeroso che lui potrebbe dover chiamare l’esercito per sparargli. Comunque sia, non potrà essere sconfitto in modo corretto».
Così Katha Pollitt su The Nation. Le elezioni presidenziali metteranno a dura prova la regola aurea che fa delle elezioni il confine estremo della democrazia. Già il 6 gennaio 2021, con l’assalto al Congresso degli Stati Uniti, abbiamo visto cosa significa entrare nella lotta politica contemplando solo la possibilità di vincere.
Le regole del gioco
Chi esercita il potere non lo cede facilmente. E molto dipende da come i vincitori trattano gli sconfitti. La democrazia elettorale è il solo sistema che non sottomette chi perde e non dà a chi vince il potere di vendetta. Sembra un gioco da ragazzi. Spesso vilipeso dagli scienziati politici perché, dicono, le elezioni scatenano il desiderio di potere e mettono in campo gente poco virtuosa e competente; lottare per il voto fa della politica un esercizio di propaganda dove ignoranza e pregiudizio hanno la meglio.
Perché dovremmo amare la democrazia? Questa domanda si ferma di fronte a Trump. Si ferma di fronte a chi identifica l’avversario come un inferiore da umiliare. Suprematismo. Ma la regola democratica dice che chi perde e chi vince sono uguali, e chi perde può ricominciare il gioco. Trump si è stancato di questa catena che non finisce mai. Vuole mettere fine al gioco, come lui stesso ha detto parlando di sé come di un dittatore per un giorno.
Trump è la negazione vivente delle regole del gioco democratico. Il gioco che vuol fare assomiglia allo scopone raccontato da Antonio Gramsci nel 1918 e che si giocava nelle osterie di paese, dove i perdenti non accettavano di perdere e la partita finiva con l’arrivo dei carabinieri.
Trump è come un giocatore di scopone: vuole solo vincere. E mobilita i suoi eserciti di avvocati e poi, eventualmente, i suoi fedeli armati di mazze, fucili, mitra, pistole, come il 6 gennaio 2021. La violenza mette fine al gioco e alle sue regole.
Queste elezioni che molto probabilmente non si concluderanno con il voto ci dicono quel che la democrazia non è. E le userò con i miei studenti per spiegare che quella che viene chiamata “democrazia minima” (la regola della conta dei voti) è in realtà una democrazia massima, che ha bisogno di un “ethos”.
Accettare di perdere comporta rispettare chi non la pensa come noi: etica della tolleranza, della dignità, dei diritti eguali. Questa lista di cose difficili da praticare sta dentro l’espressione “regole del gioco” o “democrazia minima”. Chiamarla minima è una diminutio perché fa vedere la ciliegina e non anche la torta che la sorregge. La democrazia delle regole del gioco, scrisse Norberto Bobbio nel 1984, è difficile da attuare e preservare perché le “regole” non se ne stanno separate da chi le usa come fossero il menù del ristorante.
Le regole stanno nelle azioni di chi le usa. Queste elezioni resteranno nella storia degli Stati Uniti come prova dei rischi mai superati che la democrazia porta con sé, poiché sentire il valore della libertà politica non è un fatto scontato. Il sentire che motiva l’ethos delle regole del gioco non si riproduce meccanicamente.
Crisi democratica
Se così è, si legge spesso, è perché Trump è sintomo di qualcosa che non funziona più, della crisi della democrazia. Il problema, si dice, non è Trump, ma la serie lunga e ben documentata da economisti, sociologi e scienziati politici delle disfunzioni della società contemporanea.
È il sistema economico la causa della crisi. Le cause sono da cercare nella deindustrializzazione che ha decimato lavoro stabile e forze sindacali, generando imbarazzo tra i democratici che vanno in cerca del voto, perché con quali argomenti possono chiedere consenso dopo aver governato e, anzi, aiutato la delocalizzazione delle aziende americane, come ha fatto il Nafta di Bill Clinton? E come fanno a chiedere i voti degli arabo-americani dopo aver spedito armi al governo di Israele senza essere riusciti a fermare la furia di Netanyahu? Insomma, le ragioni sulle quali Trump può mietere consensi ci sono, e non sono di poco conto. Per questo, l’esito del voto dipende da quegli stati che più hanno risentito della deindustrializzazione o dove più alto è il numero degli arabo-americani che sono andati alle urne.
Questo voto ha effetti globali perché determinerà il futuro democratico del paese guida della globalizzazione capitalista. Il paese dove la speranza di benessere è diventata un’utopia per milioni. Questo mette a rischio la stabilità e la pace civile. Perché mai, infatti, persone che non hanno quasi nulla in comune dovrebbero stare al gioco, se quel che veniva loro promesso e nel quale credevano – il sogno americano – non è realizzabile? È nella fine per moltissimi della prospettiva di miglioramento che si incunea la retorica incendiaria di Trump, più cattiva e bestiale oggi di quattro anni fa, perché oggi egli sa che questa è l’ultima sua possibilità. Dunque: muoia Sansone con tutti i Filistei. Se perde, soprattutto per una manciata di voti, farà saltare il tavolo.
La battaglia legale
In previsione, Trump ha assoldato uno stuolo di avvocati per dare battaglia, contea per contea, su ogni scheda elettorale.
Alla ricerca dei “buchi” delle schede (in molti stati si vota con macchine perforatrici), quella stessa ricerca che decretò nel 2000 la vittoria di Bush figlio contro Al Gore.
Non è la prima volta che gli Usa assistono a questa lotta nei tribunali per risolvere un problema che le democrazie promettono che solo gli elettori devono risolvere. Ma oggi è diverso, oggi si presume il broglio se non si vince. Quando la fiducia (l’ethos democratico) è vicina allo zero, uno scarto di pochi voti non basta a fare accettare la sconfitta. Le elezioni del 2024 o danno un risultato schiacciante o non si concluderanno presto e pacificamente. Sono monito per tutti i paesi, anche il nostro: quando la maggioranza vuol stare in sella a tutti i costi (in Italia il governo cerca di cambiare la Costituzione per far quello che vuole fare Trump) è anche perché essa considera i concorrenti come nemici. E dei nemici non ci si fida. Bisogna metterli a tacere.
Allora, dire che Trump è solo un sintomo non coglie il valore della democrazia elettorale e, soprattutto, il peso dei sintomi. Perché nell’America di oggi quei sintomi, che non sono recenti, sono un peso determinante e da sintomi sono diventati una causa scatenante? Il Trump sintomo è una causa scatenante.
Gli slogan contro i migranti
Nemmeno la sua litania – Make America Great (Again) – è cosa nuova (la usarono George Wallace, Ronald Reagan e anche Bill Clinton). Eppure è nuovissima. Gli argomenti di Trump sono parte di un florilegio classico. Vecchi quanto l’America, un paese “fondato” con una guerra anticoloniale e in poco tempo divenuto terra di immigrazione, in perenne bisogno di nuove braccia. Il paese, l’unico che io conosca, nel quale si può diventare cittadini con una lotteria aperta a tutti gli abitanti del pianeta.
Un paese, dunque, creato da alcuni e mandato avanti da molti, da tutti. E che ha periodicamente aperto e chiuso le porte; e generato razzismo e xenofobia, ma poi anche inclusione e politiche delle pari opportunità. Che ha osteggiato l’immigrazione di cattolici polacchi, irlandesi e degli “scuri” italiani, tanto che alcuni professori di antropologia divennero celebri per aver applicato la “scienza” lombrosiana agli immigrati connazionali di Cesare Lombroso.
Il cervello dei cattolici italiani era forse più piccolo? E poi gli italiani mangiavano i conigli, segno di una barbarie non decifrabile. Quando a Ellis Island il futuro sindaco di New York, Fiorello La Guardia, prestava servizio come traduttore dall’italiano all’inglese, doveva spiegare ai suoi che le prove attitudinali che dovevano provare la disposizione delinquenziale degli italiani erano sbagliate.
Mostrare ai bambini calabresi, abruzzesi e siciliani immagini del coniglietto carino compagno di giochi oppure animale da uccidere non rivelava nulla dei piccoli immigranti che sceglievano sistematicamente la seconda immagine. In Italia, i conigli venivano mangiati. Trump oggi accusa i nuovi immigrati di mangiare cani e gatti.
Il Maga è antichissimo e sempre nuovo. Fare l’America grande significa quasi sempre la stessa cosa: ribadire la supremazia razziale dei fondatori bianchi e protestanti, e questo vale ancor più oggi, con il numero crescente di cattolici (ma ora “latinos”) e di islamici. Il confronto con il passato serve a comprendere il fenomeno Trump. Il razzismo del “Make America great” ebbe formidabili propagatori. I primi furono i populisti.
Il People’s Party, fondato nel 1892, ha dato al termine “populismo” un valore positivo negli States, perché nato per contestare non solo gli immigrati cattolici, ma anche la tracimazione oligarchica della repubblica negli anni della ricostruzione dopo la Guerra civile. Come nel primo Great Awakening religioso di metà Settecento, quel populismo voleva essere una rifondazione della repubblica virtuosa, mettere il “governo popolare” contro il “governo istituzionale”.
Con il New Deal, il populismo buono scomparve e da movimento progressista divenne un’ideologia reazionaria nostalgica di un’America pura, cristiana, nativista (non nel senso dei nativi amerindi, sterminati). La matrice manichea del populismo venne adattata a nuovi nemici. E poi la Guerra fredda, che impose un’attenzione privilegiata alle minacce esterne alla democrazia liberale.
Secondo Richard Hofstadter, prese allora le sembianze di una pura reazione “contro” il nemico. Dal New Deal in poi, dunque, il populismo mise insieme nazionalismo e reazione contro “l’invasione degli immigrati”, ma anche contro le politiche pubbliche, i regolamenti burocratici e la tassazione, stratagemmi dell’establishment per suggere risorse. Anche Trump considera il “deep state” un nemico da smantellare.
Il fascismo ancestrale
Dunque, Trump non viene da Marte. E non è solo un sintomo. È il nuovo veicolo dell’ideologia dell’unicità americana, dell’origine virtuosa dei fondamenti che vari virus hanno cercato di intaccare: i neri ex-schiavi, i cattolici, gli asiatici, i latinos, gli islamici, il gender, le femministe, ecc. Trump ha riattivato questo fascismo ancestrale come suprematismo bianco e protestante nell’America impoverita a causa, però, non degli immigrati o della Cina o dell’Europa che vive della generosità statunitense, ma degli amici di Trump stesso, i plutocrati, nuovi vampiri della classe media che vorrebbero trasformare il paese in una delle più grandi favelas del Global North.
La bravura di Trump consiste nell’usare l’armamentario del populismo democratico (o che tale voleva essere) per una causa antidemocratica; del resto, nei suoi comizi usa raramente la parola “democrazia”, mentre usa quasi solo “America”.
Nell’articolo su The Nation, Katha Pollit racconta le opinioni di alcuni cittadini in fila al Madison Square Garden per assistere allo spettacolo di Trump. Per sentire le sue parole: «Caracas è un posto molto più sicuro di New York perché il Venezuela ha mandato qui tutti i suoi criminali … i pazzi e gli assassini di tutto il mondo sono stati spediti negli Stati Uniti… dove violentano e uccidono ragazze che sarebbero vive se io fossi stato presidente al posto di Biden». E, mentre parla, dietro le sue spalle sta il cartello che promette «I WILL FIX IT». Una donna nera grida contro l’immigrazione, la vaccinazione obbligatoria, e la gender culture (nelle scuole non c’è più la distinzione dei bagni tra uomini e donne).
Una giovane di origine coreana dice che l’Fbi e Nancy Pelosi orchestrarono l’attacco a Capitol Hill il 6 gennaio, 2021, che la Cnn, il New York Times e i democratici sono strumenti di propaganda dei nemici (la Cina e l’Unione europea), che Trump è il salvatore.
Opinioni che rendono bene quel che nessun teorico della politica riuscirebbe a rendere quando dice che gli Stati Uniti si trovano sul crinale di una slavina verso la fine della democrazia delle regole del gioco. Trump vuol seppellire le regole del gioco.
Lui è la slavina. E siamo qui ad attendere.
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