Il piano è preparare la resistenza a un voto favorevole a Harris. Negli ultimi giorni ha invaso ogni spazio con le accuse preventive di brogli e sondaggi “amici”
Uno dei molti paradossi di Donald Trump è che promette di essere più pericoloso da sconfitto che da vincitore. I quattro anni che ha passato alla Casa Bianca sono stati confusi, irrazionali, tribali e grotteschi nella retorica e nelle modalità di gestione del potere, ma tutto sommato convenzionalmente di destra nelle decisioni politiche.
È la posizione dello sconfitto defraudato quella che solletica i peggiori istinti eversivi. Lui lo sa bene e per questo nei giorni febbrili che hanno portato all’appuntamento elettorale si è occupato soltanto di organizzare lo scenario della sconfitta.
Come tutti sanno, i sondaggi danno lui e Kamala Harris in sostanziale parità: ogni previsione su quello che succederà negli swing states a partire da questa notte – e poi nei prossimi giorni e settimane, la faccenda non sarà breve – si muove all’interno del margine di errore statistico, quindi chi accampa certezze sul vantaggio dell’uno o dell’altra mente.
Trump ha perciò dedicato tutte le sue energie a convincere preventivamente il suo popolo che i democratici stanno già manomettendo un risultato ampiamente acquisito. Negli ultimi giorni ha alzato il volume dello scontro.
«Stanno combattendo con forza per rubare questa dannata corsa», «quelli che devono essere messi in galera sono quelli che barano in queste orribili elezioni», «lasciamoli rubare, è quello che fanno sempre», «tenete gli occhi aperti perché stanno già rubando», «è una vergogna e sono l’unico che ne parla, tutti hanno paura di parlarne»: sono soltanto alcune delle formule che ha ripetuto negli infiammati comizi degli ultimi giorni, facendo leva soprattutto sui timori legati al voto postale.
Per massimizzare l’effetto dei brogli percepiti, i repubblicani hanno immesso in un ecosistema informativo già vicino a un crisi di nervi un gran numero di sondaggi condotti da istituti vicini ai repubblicani, che danno Trump significativamente avanti negli stati principali.
Nell’ultima settimana sono stati pubblicati almeno una quarantina di studi di questo genere, sistematicamente amplificati dal candidato e dagli uomini chiave della sua campagna, alcuni dei quali – ad esempio uno del Trafalgar Group, molto citato – lo danno avanti di tre punti in North Carolina, stato dove la maggior parte dei sondaggisti considera invece Harris leggermente più avanti.
Siamo sempre nell’ambito di un confronto molto ravvicinato, ma l’incessante raffica di sondaggi favorevoli a Trump, unita all’ossessiva ripetizione di “brogli” e “frodi”, alimenta nel suo elettorato la percezione di avere l’elezione in tasca, e perciò qualunque altro esito sarà un furto.
Trump sta facendo una specie di scommessa di Pascal al contrario: conviene vivere questo finale della campagna elettorale come se la contesa fosse persa, dedicando così tutte le energie alla resistenza legale e movimentista a questa opzione. Se il voto lo incoronerà presidente, tutta l’architettura antagonista si dissolverà istantaneamente come un vecchio ricordo, mentre se il voto darà ragione a Harris il “ground game” della contestazione sarà già in funzione. Il piano ha una sua razionalità.
La strategia della sconfitta è chiara, basta seguire le parole di Trump per capirla e ripercorrere la sequenza degli eventi di quattro anni fa per avere un prequel. La prima fase è quella delle azioni legali sulla regolarità del voto in alcune contee decisive, manovra che è già iniziata in Pennsylvania.
Nella seconda fase si tratterà di fare pressione sui rappresentanti repubblicani nei congressi statali per non certificare il voto o per nominare nuovi grandi elettori rispetto a quelli designati. La fase finale si svolge a Washington, dove gli eletti del Gop saranno a loro volta spinti a ostacolare la certificazione del voto.
Quattro anni fa a Capitol Hill è successo quello che sappiamo. Dopo che la violenza è stata sedata e il tentativo insurrezionale è stato respinto, i rappresentanti del Congresso si sono radunati nuovamente per riprendere la votazione per certificare il risultato che era interrotta dall’assalto. 139 deputati repubblicani si sono opposti. Non avevano la maggioranza e le loro obiezioni sono finite nel nulla.
Questa volta, però, la Camera è controllata dagli uomini di Trump.
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