- L’articolo di Giorgio Berruto pubblicato dal portale di informazione ebraica morasha.it ha già fatto il giro dei social. L’autore riporta una serie di passi tratti dalla nuova edizione del più classico dei manuali scolastici di filosofia, l’Abbagnano-Fornero, che paiono tratti dalla più retriva tradizione antigiudaica europea
- Non solo un’altra testimonianza di come si possa scrivere di cose che non si conoscono, ma un chiaro segno della mancanza di una pedagogia post-Auschwitz.
- Bisogna cambiare narrazione e comprendere l’ebraismo nella storia europea. Perché non partire dall’insegnamento dell’ebraico a fianco del greco e del latino?
Nel nostro mondo iperconnesso l’articolo di Giorgio Berruto pubblicato dal portale di informazione ebraica morasha.it ha già fatto il giro dei social. L’autore riporta una serie di passi tratti dalla nuova edizione del più classico dei manuali scolastici di filosofia (l’Abbagnano-Fornero a cui si è ora aggiunta la firma di Giancarlo Burghi), che paiono tratti dalla più retriva tradizione antigiudaica europea.
Si va dalla riproposizione acritica della superata definizione di Vecchio testamento (giustamente, dice Berruto, vecchio è ciò che è da buttare), fino alla rappresentazione del cristianesimo come «superamento» dell’ebraismo. Passando per l’immagine degli ebrei come chiusi in sé stessi e insensibili all’idea di una fratellanza universale, o la descrizione del Dio ebraico come crudele e vendicativo.
Naturalmente, non poteva mancare l’idea della religione legalista, che chiede un’osservanza cieca dei precetti (che poi precetti non sono, visto che l’origine etimologica della parola è la stessa del verbo «comunicare», sospettosamente tradotto con «comandare»), a cui si contrapporrebbe il cristianesimo, la religione dell’amore.
Non solo un ulteriore esempio di quanto i pregiudizi antigiudaici ancora permeino anche la cultura alta (Abbagnano è stato uno dei padri dell’esistenzialismo filosofico italiano). Non solo un’altra testimonianza di come si possa scrivere di cose che non si conoscono (innumerevoli gli strafalcioni di metodo e contenuto rilevati da Berruto), ma, cosa a mio giudizio più grave, sintomo di quanto la scuola abbia contribuito, e ancora contribuisca, alla sedimentazione di dati culturali alla base di secoli di discriminazioni, ghettizzazioni, persecuzioni e, infine, sterminio.
Cambiare pedagogia
Si è spesso parlato di una teologia dopo Auschwitz, di un’arte dopo Auschwitz, persino di una letteratura. Credo che a questo elenco debba essere aggiunta la parola pedagogia, come ha ben intuito Raffaele Mantegazza, tra i più brillanti e intuitivi pedagogisti della sua generazione, erede della grande scuola del troppo precocemente scomparso Riccardo Massa (L’odore del fumo. Auschwitz e la pedagogia dell’annientamento, Oasi Editrice).
L’operazione da fare, a mio giudizio, sarebbe diametralmente opposta a quanto emerge dalle pagine del manuale in questione, che siamo certi verranno emendate sulla base del pluridecennale dibattito post-conciliare da tempo ben oltre la tradizionale teologia della sostituzione dove la chiesa si proponeva come Verus Israel contrapposto al vecchio.
Memori del trauma della Shoah, che, a detta degli stessi nazisti, mai sarebbe stata possibile senza secoli di rappresentazioni dell’ebreo come corpo estraneo, nemico interno e manipolatore, avaro sfruttatore delle proprietà altrui, il nostro compito è far cadere il muro di separazione fra Gesù e il suo popolo, includendo l’ebraismo nella storia europea e comprendere definitivamente che nella Torah ebraica sorgono quegli ideali di giustizia, libertà, fraternità che hanno plasmato anche l’Europa moderna.
Una proposta
Ben vengano le giornate della memoria e tutte le ritualità annesse, ma si completino con una riforma pedagogica che includa la Shoà nella ben più ampia storia dell’antisemitismo europeo e che avvicini l’ebraismo al nostro continente.
Raccolgo, allora, una suggestione della mia amica, nota traduttrice e studiosa di poesia e letteratura ebraica, Sara Ferrari, che da tempo suggerisce di includere l’ebraico nelle lingue studiate a scuola, a fianco del greco e del latino.
Oppure qualcuno pensa che la lingua biblica non sia parte della cultura europea? Nessuna petizione, strumento iper-inflazionato nell’era di internet, solo un suggerimento che si spera arrivi alle orecchie di chi ha il coraggio di riformare davvero il modo in cui studiano i nostri ragazzi e le nostre ragazze.
Convinti che solo il lavoro lungo, silenzioso e quotidiano possa produrre risultati concreti, capaci di durare nel tempo. Prendete la strada più lunga, dice il Signore a Mosè al momento di dirigersi col popolo verso Israele. È proprio la Torah ad insegnarcelo: diffidare delle scorciatoie.
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