I fondi europei potrebbero diventare indispensabili per arginare future possibili crisi bancarie. L’ipoteca di Bruxelles sulle prossime manovre di bilancio dopo l’accordo siglato da Giorgetti
Dunque, secondo Giorgia Meloni il via libera al trattato Mes era di «relativo interesse e attualità per l’Italia». Poco male, quindi, se il Parlamento ha bocciato una ratifica attesa da anni, isolando il nostro paese dal resto d’Europa, perché la novità principale rispetto al vecchio testo dell’accordo era «l’estensione di salvaguardie a banche sistemiche in difficoltà in un contesto che vede il sistema bancario tra i più solidi in Europa e in Occidente».
Questo è quanto recita testualmente una nota che viene attribuita a “fonti” di Palazzo Chigi. Una nota che fa riferimento al cosiddetto backstop bancario introdotto dalla nuova versione del Mes, quella approvata dagli altri 19 Stati dell’Eurozona.
Grazie a questo strumento vengono di fatto raddoppiati (da 80 a 160 miliardi di euro) i capitali a disposizione del Fondo di risoluzione unica per iniettare nuova liquidità in un istituto di credito in difficoltà. Ma noi non abbiamo bisogno di questi soldi, dice adesso il governo di Roma ai partner europei, perché le nostre banche sono forti e sane.
Rischi ignorati
Questa posizione appare miope alla luce del buon senso, ma anche degli avvenimenti che meno di un anno fa hanno travolto il Credit Suisse, salvato da un crac che avrebbe avuto effetti sistemici grazie all’intervento del suo principale concorrente, l’Ubs.
Ebbene, fino a poche settimane prima del dissesto, nessuno, neanche le più accanite Cassandre, riteneva possibile il collasso di un gigante bancario come il Credit Suisse, che pure viaggiava da tempo con i bilanci in rosso. Questo per dire che il vento può cambiare con rapidità ed è buona regola prepararsi al peggio quando le cose vanno bene, perché ai primi segnali di difficoltà i costi del salvataggio sono destinati a crescere inesorabilmente.
Per la premier Meloni, invece, aumentare la potenza di fuoco del Mes è di «relativo interesse», perché le nostre banche vanno bene. Vanno così bene, vien da dire, che la stessa Meloni voleva punirle tassandole di più con un’imposta nuova di zecca sui cosiddetti “extraprofitti”, che poi sarebbero, nella visione della presidente del Consiglio, i profitti “ingiusti”.
Un aggettivo, quest’ultimo, che meriterebbe forse una definizione più precisa (a partire da quale somma i guadagni non sono più giusti?). Acqua passata, l’imposta fortemente voluta da Lega e Fratelli d’Italia è affondata ancor prima di prendere il largo e le somme accantonate per far fronte alla nuova tassa sono andate a rafforzare il patrimonio degli istituti, come previsto dalla versione definitiva del decreto governativo.
Logica sovranista
Bene, le banche ora sono ancora più solide, ma come gli analisti segnalano da tempo, anche il business bancario è destinato a rallentare il passo per effetto del calo dei tassi d’interesse e dell’aumento delle sofferenze legato alla scarsa crescita economica. Sembra ancora più miope, poi, la posizione di chi guarda solo nel cortile di casa, visto che una crisi bancaria in un qualunque Paese dell’Eurozona può innescare un contagio che provoca danni anche altrove.
A questo proposito, Matteo Salvini ha usato parole che ben chiariscono la posizione della Lega, che attinge a piene mani all’estremismo sovranista dei Noeuro. «Pensionati e lavoratori italiani non rischieranno di pagare il salvataggio delle banche straniere», ha scandito Salvini pochi minuti dopo il voto a sorpresa della Camera.
Usando la stessa logica ci si potrebbe chiedere perché mai i pensionati e i lavoratori dei paesi del Nord Europa dovrebbero contribuire a finanziare, per fare solo un esempio, il Pnrr, lo strumento studiato per il rilancio dell’economia continentale a cui l’Italia ha attinto in misura maggiore rispetto a tutti gli altri stati dell’Unione.
Il ministro evita poi di ricordare che giusto poche ore prima dello stop al Mes, il suo collega di partito Giancarlo Giorgetti aveva dato via libera a un Patto di stabilità che aumenta rispetto alla versione precedente il potere della Commissione di Bruxelles quando si tratterà di definire le cosiddette “traiettorie” di riduzione del deficit e del debito.
La contraddizione è evidente. Da una parte il governo si piega a un’intesa che di fatto diminuisce l’autonomia dei singoli paesi. Dall’altra, il giorno seguente, rivendica con orgoglio la mancata ratifica di un trattato perché ci costringerebbe a eseguire i diktat delle autorità europee nel caso in cui Roma avesse bisogno di attingere al Mes per far fronte a difficoltà sul debito pubblico.
Gli obblighi del Patto
Infine, vanno considerati i numeri e le percentuali, quelle che in base all’intesa sottoscritta mercoledì sera da Giorgetti, dovrebbero scandire negli anni l’aggiustamento graduale del nostro bilancio. Senza spingerci troppo in là nel tempo, già nel 2024, quando il governo dovrà mettere a punto la manovra per il 2025, avrà a disposizione margini di manovra molto più ristretti rispetto a quelli di cui a potuto godere finora.
In altre parole, non si potrà più far ricorso a deficit aggiuntivi e andranno trovati, con tagli supplementari ad altre voci del bilancio, almeno quattro miliardi per rispettare la rotta tracciata dal Patto di stabilità.
E come farà, allora, Giorgia Meloni a finanziare misure come il taglio del cuneo fiscale e l’accorpamento di due delle quattro aliquote Irpef, che, va ricordato, valgono solo per il 2024 e assorbono da sole oltre i tre quarti della manovra appena varata? La resa dei conti arriverà il prossimo autunno, ma intanto i partiti della maggioranza potranno dar fiato alle fanfare della propaganda almeno fino alle elezioni europee di primavera.
© Riproduzione riservata