- Le recenti dichiarazioni dei ministri dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti e della transizione Digitale Vittorio Colao rimettono tutto in discussione sulla rete unica, con modalità inappropriate.
- I ministri della Repubblica dovrebbero quindi evitare dichiarazioni pubbliche vietate dalla legge sul market abuse in quanto capaci di provocare forti movimenti dei titoli in Borsa (Tim ha perso il 9 per cento in due giorni).
- Oltre a infrangere la legge, danneggiano la fiducia già scarsa degli investitori. Ed essendo lo Stato il principale azionista in Piazza Affari, è anche un atto di autolesionismo.
La prospettata fusione tra OpenFiber e le attività della rete di Tim, che lasci a quest’ultima la maggioranza del capitale nella nuova società, rimane pragmaticamente la migliore soluzione possibile, tenuto conto dei vincoli esistenti e dei vari interessi in gioco (come ho già argomentato).
Le recenti dichiarazioni dei ministri dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti e della transizione Digitale Vittorio Colao rimettono tutto in discussione, con modalità inappropriate, senza però chiarire quale sia il progetto di questo governo e come pensa di realizzarlo.
In primo luogo, ogni azionista di una società quotata – quindi anche lo Stato – deve rispettare la normativa vigente. I ministri della Repubblica dovrebbero quindi evitare dichiarazioni pubbliche (oggi Tim, ieri Atlantia) vietate dalla legge sul market abuse in quanto capaci di provocare forti movimenti dei titoli in Borsa (Tim ha perso il 9 per cento in due giorni).
Oltre a infrangere la legge, danneggiano la fiducia già scarsa degli investitori. Ed essendo lo Stato il principale azionista in Piazza Affari, è anche un atto di autolesionismo.
Il governo può legittimamente pensare che la Borsa non debba avere un ruolo rilevante nella strategia per lo sviluppo ma perché, allora, lo Stato considera strategico l’investimento appena fatto in Euronext, la società che gestisce Piazza Affari?
Il controllo politico
Giorgetti (e non è l’unico) vorrebbe una società della rete a controllo pubblico. Ma le attività che costituiscono la rete appartengono per la maggior parte a Tim, che per l’89 per cento è di soci privati: perché questi dovrebbero cederle alla società pubblica della rete senza mantenerne il controllo? A che titolo il governo penserebbe di imporglielo? O forse Cassa Depositi e Prestiti sarebbe disposta pagare ai soci di Tim il premio di controllo lanciando un’Opa sul 51 per cento della società? Ma anche così lo Stato non sarebbe libero di determinare i prezzi di concambio nella fusione perché essendone parte correlata (avrebbe la maggioranza nelle due società che si fondono) sarebbe obbligato a tutelare gli interessi delle minoranze in Tim.
Inutile nascondersi dietro a un dito: la nuova società della rete avrebbe una posizione dominante; che in una economia stagnante, e in un mercato fortemente concorrenziale come quello delle comunicazioni, è strumentale a rendere gli investimenti necessari sufficientemente remunerativi.
Né la società della rete potrebbe contare per gli investimenti sui sussidi pubblici perché la normativa europea li proibisce, che sia pubblica o privata.
Se lo Stato, ragionevolmente, teme che la nuova società abusi del proprio potere di monopolio, dovrebbe regolamentarla, non nazionalizzarla di fatto. Se l’obiettivo è la tutela dei consumatori, non importa se il monopolio è pubblico o privato, ma come è regolamentato. Ed è più facile che lo Stato regoli un privato, piuttosto che sé stesso.
La confusione non finisce qui. La soluzione pubblica sarebbe giustificata dalla necessità di portare la banda larga a casa di tutti gli italiani, o digitalizzare la pubblica amministrazione per renderla efficiente. Ma come emerge da alcune indiscrezione sui dati di OpenFiber (una frazione degli utenti raggiunti dalla fibra avrebbe attivato il servizio) portare la fibra in tutte le case non basta se poi gli italiani non possono o non vogliono pagare per abbonarsi al servizio.
Se poi l’utilizzo principale è lo streaming di video, musica o giochi, non vedo questo grande contributo alla crescita. E non basta portare la banda larga in tutti gli edifici pubblici per rendere la Pubblica Amministrazione efficiente perché il problema principale è l’organizzazione dei servizi e la disfunzionalità degli applicativi, come per esempio dimostra la disastrosa campagna vaccinale in Lombardia. Mi sfugge poi il nesso logico con la proprietà pubblica della rete.
E il 5G?
Per finire, il ministro Colao ha ricordato, molto opportunamente, che alla banca larga si accede anche più facilmente col 5G. Per esempio, sarebbe insensato cablare ogni singola stanza di un grande edificio pubblico. E in effetti la distribuzione locale del segnale avviene tipicamente via etere (wifi o wimax), che spesso riduce la velocità della fibra. Etere per etere, non sarebbe più efficiente usare il 5G in questi casi? Senza contare che la maggioranza del traffico dati viaggia sui cellulari.
Peccato però che lo Stato abbia venduto le frequenze 5G alle società telefoniche a un costo così elevato che ora non hanno più le risorse per costruire anche la rete 5G, di fatto in concorrenza a quella in fibra. Né è previsto che l’eventuale società pubblica costruisca e gestisca anche la rete unica per il 5G.
Sarebbe auspicabile che anche i nostri ministri seguissero il vecchio adagio: contare fino a dieci prima di parlare.
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