L’occidente non è più il cuore del mondo. A certificarlo per prima è la demografia. Per un miliardo di esseri umani “occidentali”, ve ne sono altri sette, forse più, che i nostri privilegi vivono con aperta ostilità. Riflettere su cosa possa significare ha più valore in queste settimane scosse dalla strage di Hamas e da quella in corso a Gaza a opera del governo israeliano.
Dunque, esiste ancora una dimensione chiamata per convenzione “l’occidente”? E nel caso, quali sarebbero profili, specialità, filo storico da avvolgere per darsi chiara l’idea della sua radice? In verità, a lungo, un’essenza dell’occidente è esistita. Uno “spirito” occidentale che a lungo si è identificato con un principio di razionalità, perno a sua volta di un modello universale riferito a tutte le culture.
Culla del razionalismo
A completezza, quello stesso razionalismo è divenuto oggetto di scontro fino dentro il perimetro dell’occidente, dai letterati russi all’anti occidentalismo in chiave germanica di molta produzione romantica. Ciò nulla toglie alla radice del principio: il razionalismo nasce nella nostra parte di mondo e qui trova gloria e splendore. Sorregge la scienza moderna, l’evoluzionismo di Darwin, le teorie dello Stato e le costituzioni liberali, l’intreccio tra sfera politica e organizzazione capitalistica.
Il nodo è comprendere cosa di tutto ciò sopravviva a noi. Una traccia possibile s’interroga se un capitalismo globalizzato sia compatibile con un modello di razionalità. Al fondo l’esplodere di diseguaglianze immorali denota anche l’irrazionalità di un modello sociale destinato a travolgere parecchi capisaldi della vecchia cultura.
Di solito il discorso a questo punto dirotta sul populismo. E anche questo non convince salvo dover riconoscere come all’Europa, che dell’occidente è magna pars, manchino da tempo leadership e un pensare politico all’altezza del binomio tra una società divenuta globale e il primato della razionalità.
Crisi della democrazia
L’esito si può declinare così: l’ultima modernità ci ha consegnato un “pubblico globale” fidelizzato a media, social, linguaggi schematici, ma in assenza di élite attrezzate a svolgere la loro funzione. A risentirne non è solo la comunicazione, ma la governabilità “razionale” di società sempre più complicate perché complici del loro impoverimento. E la vittima è una, la forma politica della democrazia.
Dunque, crisi dell’occidente come crisi della democrazia, nel senso di un venir meno della forza razionale in grado di organizzare conflitti e dissensi attraverso un pluralismo non distruttivo (e sul punto le piazze più estremiste di questi giorni qualcosa dicono). Fare coesistere moralità e sapere, competenze e identità, al fondo la modernità ha saputo coltivare l’intreccio districandosi tra epoche drammatiche e contraddizioni caotiche. Eppure ci è riuscita. In una progressione di tappe spesso ha guadagnato l’uscita.
Il nodo è cosa accade, per dire, quando l’attrito attorno a utilità o pericolo dei vaccini tracima nel disprezzo della scienza o in minaccia a chi ne puntualizza la supremazia. Oppure quando una strage orrenda come quella del 7 ottobre anima una nuova folle caccia all’ebreo mentre anche solo criticare la politica del governo israeliano scatena assurde accuse di antisemitismo.
La pressione della storia
Insomma, quale peso acquistano rottura del dialogo e scomunica del compromesso in uno scontro dove la dialettica finisce soppiantata da pregiudizi e odio? Giunti lì, razionalità e democrazia possiedono ancora le risorse utili a domare gli istinti più primitivi e distruttivi? Nella vecchia nozione di razionalità – ed era quello un modo di prevenire i danni di ora – c’era spazio per la fragilità degli uomini nella loro matrice di “legno storto”. Capacità critica e autocritica sono stati tratti distintivi di quell’impianto.
Il nodo oggi è quanto di quella tradizione regge la pressione della storia. In altre parole, quale dose di razionalismo siamo ancora in grado di contenere dentro equilibri sociali e culturali scossi con tanta violenza. A modo proprio le religioni si attrezzano a rispondere nel nome di dogmi immutabili. Il nodo riguarda tutti gli altri. Quanti vivono in società secolarizzate come possono governare il momento? La stessa dimensione dei diritti nella loro unitarietà riflette il bisogno morale della loro promozione e tutela implicando per ciò una piena autonomia e dignità della persona da riconoscere sempre e ovunque.
Questo però è solo un capitolo. Se la domanda iniziale era “esiste ancora una nozione o essenza di occidente?”, la risposta per forza deve alzare lo sguardo sul mondo. Compresi i lineamenti politico-militari.
A capirsi meglio, per tutto il secondo Novecento il conflitto tra mondo libero e blocco sovietico ha dominato la scena, legittimato attori e forgiato un vocabolario. Ma oggi cosa implica, nel concreto assetto dei poteri, l’esistenza di un regime come quello turco, annoverabile sotto l’ombrello dei regimi autoritari eppure secondo esercito della Nato, alleanza votata alla difesa pattizia dei confini di libertà propri dell’occidente?
La geopolitica è l’ottica attraverso cui l’occidente “pensa il mondo”, peccato che l’occidente il mondo lo pensi in modo diviso e divisivo. E lo stesso è spinta a fare l’Europa con conseguenze drammatiche per la sua reputazione.
Non è un ragionare astratto. Lasciare giorni e notti corpi violati in balia delle onde solo allo scopo di strappare condizioni ottimali per gestire l’emergenza è la più meschina delle vie di sfruttamento del male. Qui l’universalismo dei principi muore spiaggiato, materialmente e nel simbolo. Mentre le forme del razionalismo collassano in un avvitamento indotto interamente dal cinismo delle élite.
Ethos da condividere
Per la politica, e la sinistra, è un passaggio di fondo. Investe la possibilità di preservare la democrazia ponendola al riparo di tempeste improvvise.
L’anticorpo è nella riscoperta di un ethos da condividere, un complesso di prassi e costumi da imporre non già e solamente per via normativa, o peggio penale, ma per l’azione consapevole di un civismo militante e diffuso. Perché anche da lì, o soprattutto da lì, passa la capacità di formare gli animi, lo “spirito”, di un occidente maltrattato dai vertici.
Del resto è la storia delle nazioni a dettare questa linea. L’intreccio di demos ed ethnos, l’autorità di istituzioni frutto di lotte e vissuti affinati nella forma della democrazia. Come detto, è questa combinazione a risultare fragile. E non da oggi se Jürgen Habermas denunciava la “crisi di legittimazione” dei sistemi liberaldemocratici in un capitalismo avanzato a metà degli anni Settanta. Nulla di ora ha senso paragonare ad allora se non l’erosione della pietra come quando la goccia scava senza pausa. Ma mentre di post-modernità è lecito conversare, tanto grandi danni la chiacchiera non può produrli, sulla post-democrazia si gioca il destino di noi tutti e dell’occidente per primo.
Preservare il pluralismo
Quindi su questo andrebbe concentrato il faro, senza sconti. La prova è restituire urgenza al pluralismo, coltivarlo come una pianta nella serra. Farne il baluardo dinanzi agli imbarbarimenti. Si tratti di terrorismo, abuso del diritto internazionale e umanitario, disarmo culturale o smontaggio di paratie di civiltà, su questo piano l’Europa deciderà del suo avvenire.
Siamo nati fortunati: figli di un pensiero e società aperte. Fortificati nel pubblico e nel privato da una democrazia solida e in apparenza irreversibile. Paganamente parlando, il cielo ci cada sulla testa se non sapremo fare il possibile e l’impossibile per consegnare lo stesso patrimonio a quelli dopo.
Forse un valore interamente razionale dell’occidente è anche in questo, nel crederci fermamente e nel farlo a ogni costo.
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