- La vicenda della transazione fiscale tra fisco e gruppo Agnelli-Elkann pare dimostrare l'esistenza di un “buco legislativo”, che sarebbe necessario chiudere, adeguando le norme in questione per evitare nuovi casi simili.
- Se invece non fosse necessaria alcuna modifica, chi osservi dall'esterno dovrebbe ragionevolmente concludere che, con la transazione, la Repubblica ha rinunciato ai suoi diritti.
- Bisognerebbe allora domandarsi anche se l'Agenzia avrebbe assunto posizioni simili anche con contribuenti privi del potere contrattuale del gruppo Agnelli-Elkann.
La recente transazione fiscale fra la Repubblica Italiana e il gruppo Agnelli-Elkann merita più risalto di quello, scarso, avuto sui media. Il gruppo non ammette violazioni, e dice di voler così chiudere una vicenda altrimenti destinata a protrarsi, a solo beneficio dei professionisti.
Lo stesso vale, specularmente, per l'Agenzia delle Entrate, che accetta di incassare ora una somma minore, rilevante e certa, anziché domani una forse maggiore, ma incerta nel se e nel quando.
Verrebbe naturale domandarsi se questo sia l'esito di una (tentata) evasione da parte dei “poteri forti”, o se la legge era proprio scritta male.
C'è anche un terzo corno del dilemma, perché le cose sono più complicate; in base alle poche informazioni disponibili, bisognerebbe concludere che la transazione è il naturale, ma spiacevole, epilogo di una storia nata sghemba, opportuno forse, anche se si può dubitare della sua legittimità.
La società familiare in cima al gruppo, Dicembre Sa verserà 203 milioni di euro e 746 milioni li verserà Exor Sa, sua controllata al 55 per cento circa, dove però Dicembre Sa vota per l'85 per cento; miracoli delle frugali leggi olandesi. Perché il gruppo s'impegna a pagare 949 milioni?
Partiamo dal trasferimento in Olanda della sede legale, attuato mediante la fusione di Exor Spa, finanziaria italiana alla testa del gruppo, nell'olandese Exor SA. La fusione transfrontaliera ha visto uscire dai nostri “confini fiscali” le partecipazioni detenute dalla Spa, partecipazioni a loro volta in gran parte già “emigrate” in Olanda.
Quell'uscita, se fosse avvenuta con la vendita della partecipazione, e chiedendo i benefici delle norme sulla participation exemption, avrebbe comportato una piccola tassa, pari solo al 5 per cento della differenza fra il valore di cessione e quello di carico delle partecipate.
Se invece, come nel caso di specie, l'uscita dall'Italia avviene tramite fusione, senza che in Italia resti una stabile organizzazione, va pagata una tassa d'uscita (Exit tax); il relativo importo sarebbe stato ben maggiore, forse il doppio, dell'importo della transazione.
Se questa ricostruzione, basata su informazioni frammentarie, è corretta, l'Agenzia ammette di non avere abbastanza elementi per vincere la vertenza col gruppo, ma pensa di averne abbastanza per indurlo a scucire una bella somma.
La vicenda pare dimostrare l'esistenza di un “buco legislativo”, che sarebbe necessario chiudere, adeguando le norme in questione per evitare nuovi casi simili. Se invece non fosse necessaria alcuna modifica, chi osservi dall'esterno dovrebbe ragionevolmente concludere che, con la transazione, la Repubblica ha rinunciato ai suoi diritti.
Bisognerebbe allora domandarsi anche se l'Agenzia, che qui pare aver messo da parte la forma con cui è stato realizzato il trasloco in Olanda, per privilegiarne la sostanza, avrebbe assunto posizioni simili anche con contribuenti privi del potere contrattuale del gruppo Agnelli-Elkann.
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