Il cessate il fuoco sul fronte Nord si presenta come la classica montagna che ha partorito il topolino, lasciando la situazione al confine sostanzialmente immutata rispetto a prima del 7 ottobre, quando Hezbollah si era ampiamente rinsediata nelle zone da cui era stata fastta indietreggiare. Cosa assicura oggi un esito diverso?
Viste le premesse scandite da operazioni di intelligence con pochi precedenti (dai pagers, ai walkie-talkie, fino all’uccisione di tutto lo stato maggiore di Hezbollah, a cui si somma l’assassinio di Ismail Hanyeh nel cuore di Teheran il giorno solenne dell’insediamento di Pezeshkian) che avevano dimostrato la capacità di penetrare il fronte nemico come un coltello nel burro, l’accordo per un cessate il fuoco sul fronte Nord si presenta come una sconfitta per Israele.
È vero che Hezbollah è molto indebolita e decapitata. È vero che è raggiunto l’obiettivo minimo di farla indietreggiare dietro il fiume Litani come previsto dalla risoluzione Onu 1701 da sempre disattesa.
È vero che, se la tregua regge come presumibile, i sessanta giorni daranno la possibilità agli sfollati di tornare alle proprie case nel Nord di Israele da dove sono dovuti fuggire dal 7 ottobre stesso, quando è iniziata la pioggia ininterrotta di 14.000 razzi lanciati dal Partito di Dio.
L’accordo, però, assomiglia alla classica montagna che partorisce il topolino, non avendo modificato in nulla gli equilibri al Nord, e lasciando ad Hezbollah la possibilità della consueta pausa tattica per ripresentarsi armata e combattiva fra un tempo non meglio precisato, perpetuando questo eterno ritorno dell’uguale, per cui la pace, per lo Stato ebraico, assomiglia alla pausa fra due guerre.
Probabile che Netanyahu abbia dovuto digerire l’accordo a causa della pressione americana (vedi strozzatura nel rifornimento di armi a cui il premier israeliano ha fatto riferimento nel suo discorso alla nazione), rinviando decisioni più gravi dopo il 20 gennaio, quando alla Casa Bianca sarà seduto Donald Trump ed il discorso potrà ripartire da zero.
La tregua con il Libano fa comodo a Israele e all’Iran, ma è siglata sulla pelle dei palestinesiA mettere insieme i pezzi del puzzle sparsi negli ultimi mesi, ultimo discorso compreso, con una Hamas ormai isolatissima a cui è rimasta solo la possibilità di mettersi in scia per un cessate il fuoco per trattare una resa onorevole (tradotto: salvare se stessa dopo aver fatto massacrare il suo popolo), Netanyahu deve inventarsi qualcosa per proseguire il conflitto e mantenere in vita il suo governo, unica ancora di salvezza rispetto ai processi che riprenderanno regolarmente il 3 dicembre.
Dopo non essere riuscito ad eliminare nemmeno Hezbollah, pare offrire, così, in cambio un ipotetico attacco esiziale al regime degli ayatollah nuovamente indicato come bersaglio. Un obiettivo talmente ghiotto e grande per sauditi e Usa (chiunque fosse stato il presiedente) che farebbe loro digerire persino un’annessione di fatto del Nord della Striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania, dove si concretizzerebbe il progetto del sionismo religioso propagandato da Bezalel Smotrich da anni: annettersi l’intera West Bank, riservando delle zone di autonomia palestinese, naturalmente a macchia di leopardo. Un piano che pare direttamente mutuato dalla logica delle riserve per i nativi americani.
Questo consentirebbe a Bibi di mantenere il governo, rinsaldare il proprio potere e procedere verso la svolta autoritaria, riprendendo in mano il dossier riforma della giustizia per far fuori magistratura e Corte suprema e salvarsi definitivamente. I botta e risposta con Teheran finora sono sembrati un reciproco modo per verificare le capacità di difesa dell’avversario ed Israele con l’ultimo attacco ha dimostrato di poter violare lo spazio aereo nemico con enorme facilità, ma resta del tutto oscuro come da qui si passi ad un regime change, che dovrebbe scattare dall’opposizione interna all’antica Persia.
Davvero difficile capire cosa Israele possa colpire per dare supporto ad un colpo d Stato e ancor di più su quali forze dentro l’Iran possa contare per perseguire un simile obiettivo. Vista la portata da libro dei sogni dell’obiettivo, la strategia bibista sembrerebbe quella consueta dal 7 ottobre in avanti: adattarsi alle circostanze, calciando la lattina un po’ più in là. In attesa non si sa di cosa, visto che l’ambizioso piano si scontra contro altri due muri: gli alleati egiziani e giordani, che certo non gradiscono si riversi verso i propri confini una massa di derelitti palestinesi schiacciata dalla pressione israeliana, e il dilemma demografico che, in caso delle annessioni di cui sopra, porterebbe ad una maggioranza araba in Israele, condannandolo o a non essere più ebraico o a non essere più democratico.
La gran parte del Paese ha già dimostrato di essere ostile ad entrambe le ipotesi.
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