Perché Netanyahu di fronte all’occasione storica di liquidare il Partito di Dio e infliggere un duro colpo al suo protettore iraniano si è dovuto arrestare. Non solo realpolitik ma anche un effetto del mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale
L’accordo sulla tregua in Libano pare frutto della (momentanea) convergenza di interessi, e debolezze, dei diversi attori coinvolti nel conflitto.
Attraverso la doppia guerra sul fronte nord e sul fronte sud, Israele puntava a ridisegnare l’assetto strategico della regione.
Nell’intento di “tagliare” le unghie ai proxies dell’Iran ai confini: in particolare a Hezbollah, che, per affinità politiche, ideologiche, religiose e storia, rappresenta la freccia più insidiosa nel feretro dell’arco sciita teso tra Teheran e Beirut.
La scelta obbligata di Bibi
Contrariamente ai falchi messianici di estrema destra che lo sostengono e tengono in pugno, convinti, in un’ottica annessionista, che il fronte principale sia quello meridionale, Netanyahu, erede sin troppo pragmatico del nazionalismo di matrice Likud che guarda alla Grande Israele in funzione dei problemi di sicurezza, ha sempre considerato la partita libanese decisiva nella strategia dello stato ebraico. Tanto che il suo governo aveva ambiziosamente denominato l’operazione militare in quel teatro “Nuovo Ordine”.
Eppure, di fronte all’occasione storica di liquidare il Partito di Dio, e infliggere un duro colpo al suo protettore iraniano, si è dovuto arrestare. Non solo a causa di ragioni politiche interne, come quelle di far rientrare gli sfollati in Alta Galilea e concentrarsi sugli ostaggi ancora detenuti a Gaza, ma anche per ragioni militari.
Combattere su due fronti è, in termini di risorse umane, molto dispendioso per un paese pur ultra armato, tecnologicamente avanzato, ma demograficamente contenuto, come Israele.
La mobilitazione dei riservisti per un periodo che va oltre i tre mesi mette in crisi l’economia, già provata dagli alti costi della guerra, solo in parte coperti dagli aiuti Usa.
La forza di Hezbollah
La tenuta di Hezbollah sulla linea del fuoco si è mostrata, poi, come già nel 2006, più strenua di quanto lasciasse prevedere la potenza di fuoco dispiegata. Nonostante la decapitazione della catena di comando militare del Partito di Dio, l’Idf è avanzato lentamente e poco in profondità sul campo di battaglia, subendo ingenti perdite umane e materiali. A conferma che, a dispetto dei pesanti bombardamenti che hanno fatto del Libano meridionale una sorta di replica, in scala minore, di Gaza, le guerre senza “stivali sul terreno” non si vincono: tanto più in presenza di forze nemiche che godono del sostegno della popolazione e dispongono di retroterra logistico: come Hezbollah, partito-comunità e sorta di stato parallelo, che trae la sua forza non solo dalla dimensione armata.
L’Idf ha provato a farsi strada radendo al suolo città e villaggi, obbligando la popolazione sciita a sfollare: nel duplice intento di privare i miliziani con il vessillo giallo di rifugi e sostegno e fare dei profughi un elemento di destabilizzazione interna e acuto contrasto intercomunitario. Nonostante ciò, Tsahal non è riuscito a sfondare sul terreno, assai più impervio ed esposto delle sabbie di Gaza. Così, nelle labirintiche colline libanesi, i carri Merkava, divenuti più lenti, sono stati facile bersaglio dei miliziani annidati nei villaggi e nei tunnel della zona.
All’offensiva che andava bene nell’aria e male via terra, si è aggiunta l’impossibilità di controllare efficacemente la frontiera tra Siria e Libano, tra le cui porose maglie transitano delle armi iraniane altrimenti intrasportabili. Non poteva, e voleva, impedirlo Assad, tenuto in piedi da Teheran e Mosca. Così lo scenario bellico si è complicato.
Il ruolo di Usa e Francia
A ciò si è aggiunto il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale contro Netanyahu e Gallant, che sanciva anche formalmente un isolamento internazionale già difficile da reggere e ha colpito Israele molto più di quanto si ammetta. La scelta di chiedere alla Corte, prima accusata di aver preso una decisione «antisemita», ora di riconsiderare il provvedimento in concomitanza con l’annuncio della tregua libanese rivela come Netanyahu abbia cercato di attenuare l’impatto di quella decisione.
Premendo sulla Francia, interessata a svolgere un ruolo attivo nelle vicende libanesi. Preferendo la realpolitik ai diritti umani, Parigi ha accettato lo scambio politico, dicendosi disposta a considerare l’immunità diplomatica nel caso di paesi che non riconoscono l’autorità della Cpi.
A caldeggiare l’arresto delle ostilità, ovviamente, anche gli Usa. Netanyahu temeva che Biden lasciasse passare all’Onu una risoluzione destinata a mettere ancora più in difficoltà Israele. Contando sul fatto che la tregua scadrà poco dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Trump, dal quale spera di ottenere una diversa libertà d’azione, e sull’aver strappato un “protocollo” segreto che consente a Israele di reagire nel caso ritenga violati gli accordi, il riottoso Bibi ha detto sì. In quella direzione spingevano anche i paesi arabi con cui Tel Aviv vorrebbe chiudere gli Accordi di Abramo. Difficile per i sauditi, che si sono sempre voluti protettori della comunità sunnita locale libanese, firmarli mentre anche nel Paese dei Cedri è in corso guerra aperta.
A sua volta Hezbollah aveva bisogno della tregua per riorganizzarsi, dopo i micidiali colpi inferti dagli israeliani alle sue strutture politiche e militari. E per preservare la sua influenza nella comunità sciita nazionale, coinvolta nel conflitto non solo nel sud, ma anche a Beirut.
Lo sfollamento dei quartieri sciiti della capitale e dei centri oltre il Litani, per effetto della devastante guerra aerea israeliana, minacciava di intaccare la legittimazione del Partito di Dio. Il gruppo conta ora di riguadagnare consenso concentrandosi nella ricostruzione, con gli aiuti iraniani, delle aree distrutte, possibile solo in un contesto non bellico. Non prima di aver celebrato sé stesso, e il proprio mito di “combattente per la giustizia”, nel rito politico e religioso del funerale pubblico a Beirut del defunto Nasrallah.
Il realismo iraniano
Quanto all’Iran, non poteva lasciar distruggere Hezbollah, e con esso la sua proiezione strategica in riva al Mediterraneo. Accettando la fine del sostegno a Hamas da parte del più affine dei proxies, e sancendo, per ora, la fine dell’Asse della Resistenza in versione militare al confine con “l’entità sionista”, si è mostrato realista. Teheran ha bisogno di tempo per prepararsi a un eventuale confronto diretto con Israele e vedere cosa accadrà quando alla Casa Bianca vi sarà il nuovo inquilino. Capire, soprattutto, se turbanti ed elmetti potranno confidare su un’intesa complessiva tra Putin e Trump, che escluda, pur a qualche prezzo, ogni tentativo di regime change in Iran.
Giustificando la nuova fase di necessità, Hossein Salami, capo dei Pasdaran, ha auspicato, in un messaggio al leader di Hezbollah, Naim Qassem, che il cessate il fuoco in Libano consenta anche la fine della guerra a Gaza. Ad annusare l’aria che tira su quel fronte, segnali e aspettative non sembrano, però, andare in quella direzione.
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