Bad things, cose cattive. Potrebbe essere il titolo di un nuovo film d’azione americano ma non lo è, sebbene il copyright sia sempre a stelle e strisce. Sono le parole con cui Donald Trump ha commentato la lettera che il leader iraniano Ali Khamenei ha mandato a Washington, via Oman, in risposta alla missiva fatta pervenire, attraverso gli Emirati Arabi Uniti, all’inizio di marzo dal presidente americano a Teheran (dal 1979 i due paesi non hanno rapporti diplomatici e, come sempre, comunicano attraverso intermediari).

In questo caso, però, il rifiuto del dialogo diretto, che pure trova sovente canali alternativi a quelli ufficiali, non ha solo ragioni ideologiche. In realtà, Teheran non intende negoziare con Washington sotto minaccia. Perché come tale è stato percepito il messaggio trumpiano, che ha messo in difficoltà la già indebolita leadership iraniana, provata dal dissenso interno e dal tracollo della struttura militare dei gruppi dell’Asse della Resistenza, in particolare di Hezbollah.

Negoziare, ma alla pari

Evitare di mostrarsi arrendevoli e mantenere allo stesso tempo la porta aperta all’interlocuzione è stata la preoccupazione di Teheran, consapevole che, davanti all’imprevedibilità dell’America di Trump, tutto può accadere.

Così, Ali Shamkhani, capo del Consiglio di sicurezza nazionale e consigliere della guida suprema, ha fatto filtrare che la risposta di Khamenei è stata ispirata alla moderazione ma, soprattutto, che l’Iran non respinge l’idea di negoziare con gli Usa. Purché avvenga su un piano paritario.

Condizione che non può certo essere soddisfatta se, nello spirito del tempo , l’America si esibisce in muscolari diktat. La guida ha definito l’ultimatum di Trump un «inganno», con l’obiettivo di scaricare su Teheran la responsabilità di non negoziare. Rifiuto che potrebbe scatenare un’azione mirata a risolvere, una volta per tutte – se fosse necessario anche usando il link Houthi, lo stesso che ha condotto Trump a minacciare di colpire duramente sia il gruppo yemenita sia il suo strategico protettore – la questione Iran.

Nucleare militare

Nella sua ultimativa, dura, corrispondenza, il presidente Usa ha dato a Teheran – in “stile ucraino” – due mesi di tempo per concludere un nuovo accordo sul nucleare. Quello stesso deal da cui Trump, sempre ansioso di cesure con gli odiati predecessori dem – in questo caso Barack Obama – era uscito unilateralmente nel 2018.

Mossa cui gli iraniani hanno reagito accelerando l’arricchimento di uranio dal 60 al 90 per cento, balzo necessario per consentire la produzione di ordigni nucleari: obiettivo ritenuto ormai non troppo lontano da Cia e Mossad. Prospettiva, quella del nucleare militare, che i settori del regime iraniano più legati all’idea della potenza regionale farsi e all’esigenza di una deterrenza di ultima istanza costituita dalla “bomba”, capace di salvaguardare il regime da attacchi esterni, non hanno mai cessato di caldeggiare.

Ufficialmente Khamenei ha più volte ribadito che l’obiettivo della Repubblica islamica non è il nucleare militare, ma che l’Iran non potrà mai accettare, tanto più dopo l’uscita americana dal JCPOA, di fare marcia indietro sul nucleare civile, che invece gli Usa di Trump e Israele ritengono l’anticamera della bomba.

Dunque, mentre il mondo, attonito, guarda all’Ucraina o a quanto accade a Gaza, l’America torna a mettere pesantemente sul tavolo una questione che lo stesso Trump dice di essere tra le prime di cui occuparsi nella lunga lista che presiede alla rigerarchizzazione del potere Usa nella nuova èra degli imperi. Opzione non solo evocata se, nel frattempo, il Pentagono manda gli Stealth B2 a “scaldare i motori” sulla pista di Diego Garcia, base del Pacifico, dalla quale i bombardieri invisibili potrebbero partire, carichi di ordigni capaci di penetrare bunker sotterranei, per colpire l’Iran. Dislocamento che gli Usa ammettono non essere estraneo alla scadenza dell’ultimatum a Teheran.

Il Nuovo Medio Oriente

Prospettiva, quella della definitiva soluzione della questione iraniana, fermamente sostenuta non solo dalle bellicose e improvvisate tribù accampatesi in riva al Potomac ma anche dal governo Netanyahu. Se la Repubblica islamica cadesse, nulla osterebbe più al ridisegno del Nuovo Medio Oriente.

L’Arabia Saudita, liberata dal fantasma del rivale iraniano, potrebbe finalmente firmare gli Accordi di Abramo, permettendo a Mohammed bin Salman di concentrarsi sul suo ambizioso progetto Vision 2030. Israele potrebbe annettersi la Cisgiordania e, occupare Gaza, senza troppi ostacoli: la questione palestinese rimarrebbe vicenda di profughi. Quanto all’America di Trump potrebbe, Vladimir Putin permettendo, imporre anche all’Iran, ricco di idrocarburi, la sua visione imperialeconomica su base risarcitoria.

Manca poco più di un mese alla scadenza dell’ultimatum trumpiano all’Iran. E la clessidra mediorientale continua a far scivolare la sabbia del tempo verso la resa dei conti. Sarà ancora possibile capovolgerla?

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