C’era grande attesa per le riunioni della Federal Reserve e della Bce. Non tanto per l’aumento dei tassi, ampiamente scontato, rispettivamente dello 0,25 e 0,50 per cento, quanto per avere indicazioni sulla futura traiettoria della politica monetaria e quindi dell’inflazione e del rischio di recessione, l’incognita cruciale del 2023.

Ma c’è un dato che dovrebbe far riflettere: i comunicati e le conferenze stampa dei presidenti di entrambe le istituzioni, invece di ridurre la forte divergenza tra le aspettative dei mercati e quelle delle banche centrali, l’hanno ulteriormente allargata. Non è un dato da poco.

La prima ovvia conclusione è che le banche centrali hanno perso credibilità e che la loro comunicazione, con le conferenze stampa che, come vedremo, a volte contraddicono i comunicati, aumenta l’incertezza. La seconda, conseguenza della prima, è che le banche centrali, avendo abbandonato la forward guidance sul futuro andamento dei tassi per ancorare le aspettative di inflazione, il fondamento della politica monetaria degli ultimi 30 anni, non sanno ancora con cosa e come la sostituiranno.

La tendenza

Nel comunicato, la Fed ha riconosciuto che il processo di disinflazione è stabilmente avviato, con l’indice dei prezzi dei consumatori in crescita al 2 per cento negli ultimi mesi, il mercato immobiliare in picchiata, le indagini sul settore manifatturiero e i servizi che segnalano contrazione, le condizioni finanziarie che si mantengono restrittive.

Tuttavia, rimane la piena occupazione nel mercato del lavoro, con le offerte di impiego che eccedono le domande, e la dinamica dei salari, specie nel settore dei servizi, è ancora incoerente con l’obiettivo di inflazione del 2 per cento. Pertanto, oltre ad aumentare i tassi dello 0,25 (a 4,75), la Fed conferma la linea restrittiva definita nella riunione dello scorso dicembre, che prevedeva rialzi anche oltre il 5 per cento; il mantenimento di questi livelli almeno fino alla fine dell’anno; oltre alla prosecuzione del quantitative tightening.

Il comunicato ribadisce quindi che la politica resterà restrittiva fino a che non ci saranno chiari segni che l’inflazione sia ritornata vicino al 2 per cento, pur rimanendo dipendente dall’andamento dei dati economici.

La conferenza stampa

Ma nella successiva conferenza stampa del Presidente Powell il tono è cambiato. Powell ha ribadito tutte le ragioni per cui l’inflazione sta rallentando stabilmente, e che sarà riportata sotto controllo senza una recessione.

Ha lasciato tuttavia intendere che se i dati nei prossimi due mesi saranno in linea con il trend attuale, il più che probabile aumento dello 0,25 per cento (al 5 per cento) a marzo sarà l’ultimo; e che lo scenario dei tassi stabili fino almeno a dicembre potrebbe essere riesaminato.

Ha pure sottolineato come non ci siano segni di una spirale prezzi-salari e che le aspettative di inflazione derivate da sondaggi di opinione siano ben ancorate: alla domanda se questa affermazione non fosse in contraddizione con il comunicato che vede nella dinamica dei salari l’unico rischio di inflazione, Powell ha risposto in modo poco convincente, che quando le aspettative cambiano è troppo tardi.

La divergenza con i mercati

La conclusione dei mercati è stata che la fase restrittiva è finita, il rialzo dello 0,25 a marzo sarà l’ultimo, che l’inflazione scenderà più rapidamente di quanto prevede la Fed, che non c’è rischio di un’inflazione da costi in quanto l’occupazione record è dovuta a fattori demografici contro cui nulla può la Fed, senza contare che il mercato del lavoro è un indicatore ritardato, ovvero i licenziamenti partono quando la domanda ha già rallentato: così la borsa è schizzata al rialzo e il rendimento dei titoli di stato è sceso. Inoltre, i contratti futures scontano che già quest’anno la Fed dovrà tagliare i tassi dello 0,5 per dicembre 2023 per contrastare la recessione.

A un’esplicita domanda su quest’ultimo punto, Powell ha risposto che la Fed fa un mestiere diverso dagli investitori, e che quindi non ha importanza se le aspettative sono divergenti, implicando che alla politica monetaria interessa l’impatto sull’economia reale, mentre gli investitori sono liberi di credere quello che vogliono.

È un grave errore: se il mercato avrà ragione significa che la Fed sottovaluta il rischio di rallentamento e sarà costretta a fare ammenda e marcia indietro sui tassi; se invece avrà ragione la Fed, i mercati crolleranno per la sorpresa di una politica più restrittiva del previsto. In entrambi i casi la divergenza può essere fonte di volatilità e di crisi finanziarie che ormai sappiamo essere foriere di danni all’economia reale.

La Bce

Considerazioni analoghe valgono per la riunione della Bce che ha aumentato il proprio tasso di rifinanziamento dello 0,5, al 3 per cento. Il linguaggio del comunicato della Bce è marcatamente più restrittivo di quello della Fed, riaffermando che l’obiettivo di inflazione è incondizionato (si reitera “we stay the course”) pur riconoscendo che il rallentamento dell’inflazione è in atto, l’impatto diretto del caro energia esaurito (anche se rimane l’effetto secondario sugli input dei beni), e l’economia in rallentamento, ma senza rischio recessione.

Pertanto la Bce ha già annunciato che a marzo ci sarà un altro aumento dello 0,5, e non si escludono esplicitamente ulteriori rialzi, a seconda dei dati; e a marzo avvierà anche il quantitative tightening, anche se parziale.

Contraddizioni

Ma la conferenza stampa della presidente Lagarde ha mostrato tutto il deficit di credibilità della Bce. Più domande hanno ribadito l’incoerenza di aver annunciato già adesso che ci sarà sicuramente un aumento a marzo dello 0,5 (al 3,5 per cento) anche se la Bce aveva esplicitamente deciso di abbandonare la forward guidance, e al tempo stesso si dichiara che la politica rimane data dependent.

In altre parole, se i dati dei prossimi mesi mostreranno un’inflazione in netto calo e un aumento del rischio di recessione, la Bce manterrà comunque a marzo il proprio impegno incondizionato di aumentare dello 0,5? O il rialzo sarà dimezzato, o non ci sarà rialzo?

Un’ovvia contraddizione che Lagarde non ha saputo spiegare, come non ha chiarito a quali dati la Bce guarderà per decidere, quale è il livello neutrale dei tassi, ovvero quello compatibile con l’inflazione al 2 per cento, o cosa deciderà se l’inflazione scenderà più rapidamente del previsto: rischierà la recessione?

Come la Fed, il messaggio “falco” della Bce è risultato poco credibile: così mentre la Lagarde preannunciava un aumento al 3,5 per marzo, e il mantenimento a lungo di una politica rigorosa, il rendimento a due anni sui titoli tedeschi che dovrebbe riflettere la politica della Bce nel prossimo futuro, crollava da 2,7 per cento a un minimo di 2,4.

Senza credibilità

Anche in Europa, dunque, aspettative tra banca centrale e mercati divergono: gli investitori credono che l’inflazione scenderà più rapidamente del previsto, che la politica restrittiva durerà troppo a lungo con effetti recessivi, e che quindi la Bce, smentendosi, dovrà tagliare i tassi prima del previsto; o non li aumenterà come dice di voler fare. Come si è visto, una divergenza potenzialmente fonte di crisi finanziarie con un costo reale per tutti.

La credibilità delle banche centrali ci ha dato trent’anni di stabilità dei prezzi. Quanto sta succedendo dimostra che questa credibilità è in gran parte perduta. Il Covid, una guerra in Europa, la crisi energetica, e la chiusura per tre anni della Cina sono shock inediti.

Si è creduto di poterli affrontare prevalentemente con la politica monetaria e strumenti altrettanto inediti, come i tassi negativi o i massicci acquisti di titoli, entrando in un territorio sconosciuto. Risultato: un’inflazione imprevista, da cui non si sa come e quando si uscirà. E la conseguente perdita di una credibilità, che ancora non si sa come poter recuperare o con cosa sostituirla per stabilizzare le aspettative.

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