- Contro il free speech assoluto vagheggiato da Musk riguardo a Twitter, Nesrine Malik sostiene sul Guardian che i social network funzionano se disciplinano “l’espressione e i contenuti”.
- Il problema non si porrebbe se le piattaforme, uscendo dalla fase del Far West, accertassero che le utenze siano autentiche, cioè intestate a persone fisiche o giuridiche.
- Così, fra illusioni di whistle blower e interesse dei padroni dei bot a lasciar le cose come stanno, il meglio dell’intellettualità democratica e liberale si perde a discettare se la libertà sui social sia resa più accettabile da un paio di manette.
Contro il free speech assoluto vagheggiato da Elon Musk riguardo a Twitter, Nesrine Malik sostiene sul Guardian (subito ripreso con compiacenza da La Stampa) che i social network funzionano se disciplinano «l’espressione e i contenuti».
Tant’è che la libertà inaugurata da Musk col riammettere Donald Trump, filonazisti e compagnia, avrebbe innescato, a quanto si legge, una valanga di contenuti odiosi senza precedenti, tale da inorridire e far scappare gli inserzionisti pubblicitari (con la conseguenza di 300 milioni in meno di ricavi).
Tanta immane disputa sulla libertà d’espressione e i suoi malanni non rivela, disgraziatamente, ma occulta l’autentica materia del contendere e fa scomparire il moltiplicatore strutturale dell’enfasi d’odio che corre per la rete.
L’armata dei non viventi
Le piattaforme, secondo la legislazione americana, sono semplici fornitori di servizi di collegamento in rete, liberi da responsabilità circa i contenuti che trasportano, come un postino che recapiti, inconsapevole, un pacco bomba.
Ma, per rendere l’affare profittevole, le piattaforme si fanno parte attiva negli scambi e, in sostanza, “raccomandano” sia la pubblicità che, fra i contenuti degli utenti, quelli cosiddetti “di tendenza” perché visitati dai click di molti utenti. Ma proprio perché un contenuto diventa “tendenza” se molti utenti lo rilanciano, l’arte dei diffusori (addetti al marketing delle aziende o alle cyberguerre sulla pelle dei corpi elettorali), sta nel dotarsi di un esercito di utenti-robot che su quanto gli sta a cuore facciano immediato e costante movimento finché l’algoritmo della casa non lo scambia per autentica tendenza e lo promuova lui stesso ad ogni utente che, considerato il profilo potrebbe esserne colpito e interessato.
Tutto ciò non accadrebbe se le piattaforme, uscendo dalla fase del Far West, accertassero che le utenze siano autentiche, cioè intestate a persone fisiche o giuridiche, eliminando così in un sol colpo gli eserciti degli utenti-robot e l’innesco del meccanismo di rilancio di cui sopra.
Odiare in Rete, ma senza robot
In questa condizione anche il più accanito degli odiosi disporrebbe di un fucile a tappi e non di una mitraglia. Il contenuto d’odio e la libertà di formularlo resterebbero, ma come un puntino nello spazio, perché la diffusione a catena sparirebbe, e con essa il danno socioculturale che tanto ci spaventa.
Per non dire che l’odiatore, una volta tenuto a firmare col nome e col cognome, per non pagarne prima o dopo il fio provvederebbe ad auto moderarsi da sé solo.
Tale è lo stato delle cose, e per questo ci desta meraviglia che tante energie siano dedicate a discorrere se la libertà espressiva in social debba stare nella bottiglia della moderazione, e non invece se serva il superamento dell’anonimato che recide il legame tra contenuto e responsabilità.
E che prima ancora, spalanca i social alla manipolazione da parte di centinaia e centinaia di milioni di non-viventi. Del resto, voleste mai farvi qualche robot in proprio, basta googlare “utenze come vere” per vedervene proporre l’acquisto a pochi dollari ciascuna.
Ma ahimè, mentre lo scriviamo, sentiamo già scalpitare i tifosi dell’esistente in quanto tale. In prima fila i “virtuosi” a spiegare che l’anonimato protegge i più deboli dalle vendette dei potenti (mentre si sa che proprio per l’anonimo “debole” non c’è scampo perché, senza neanche disturbare la Polizia Postale, esistono imprese che mischiando dati d’ogni genere stanano chiunque si nasconda dentro un social).
In seconda fila i “praticoni”, secondo i quali l’accertamento delle identità effettive dell’utenza sarebbe “troppo complicato” e “non desiderato” dalle stesse piattaforme. Col che si scambia per salute l’avanzata malattia.
Così, fra illusioni di whistle blower (denunciatori nascosti di malefatte) e interesse dei padroni dei bot a lasciar le cose come stanno, il meglio dell’intellettualità democratica e liberale si perde a discettare se la libertà sui social sia resa più accettabile, e magari seducente, da un paio di manette. Perché è vero che il social acceca chi vuol perdere.
© Riproduzione riservata