Uber Files. Lobbismo spregiudicato verso i politici, porte girevoli tra business e rappresentanti delle istituzioni, un rilevante cinismo verso i propri drivers – esposti consapevolmente a possibili ritorsioni dei taxisti tradizionali («la violenza garantisce il successo», scriveva il cofondatore dell’azienda Kalanick). È questo il contenuto di oltre 124.000 documenti riservati fatti trapelare da un whistleblower (un ex dipendente della stessa Uber) e finiti in possesso di un gruppo di testate internazionali. La mole impressionante di materiale scottante ricostruisce l’altro volto dell’ascesa globale della piattaforma.

Per commentare la vicenda si potrebbe partire da un saggio del 2011 dell’autorevole sociologo Colin Crouch, The strange non-death of Neoliberalism. Egli coglieva i limiti del termine lobbismo per definire l’attività delle corporations transnazionali: «I rapporti che le Tnc intrattengono con gli stati somigliano più a quelli tipici degli ambasciatori di un altro stato». E aggiungeva come, in linea teorica, i neoliberisti più puri avrebbero dovuto guardare con sospetto una tale commistione tra politica e affari – mentre, nella realtà fattuale, le cose continuavano a correre.

La strategia di Uber

L’irresistibile ascesa di Uber – come confermato dai leaks – si è fondata su questa ambivalenza: da un lato una filosofia d’impresa fondata su una forte deregulation del lavoro di matrice ultra-liberista, dall’altro una pratica di crescita poco consona ai principi del libero mercato (riservato, quest’ultimo, agli autisti senza diritti in concorrenza tra loro).

Il conflitto di interessi – evidente nel caso dell’ex Commissaria europea alla Concorrenza e all’Agenda digitale Neelie Kroes divenuta lobbista della compagnia – indica un fattore di degenerazione delle democrazie liberali all’epoca del “potere dei giganti”.

L’altro angolo dal quale possiamo leggere la WikiLeaks del capitalismo digitale è quello dei conflitti che hanno accompagnato l’impetuosa crescita della gig economy. Non ci riferiamo qui alle proteste degli operatori tradizionali dei servizi di taxi, quanto ai fenomeni di sindacalizzazione dal basso che hanno riguardato i riders delle varie Deliveroo come gli autisti della stessa Uber.

Sprovvisti di ogni tutela, con il sindacato tradizionale o spesso senza, essi hanno saputo organizzarsi collettivamente per domandare diritti e riconoscimento. Hanno affrontato la fuga dalle regole esercitata dalle multinazionali, per le quali dovevano essere independent contractors. Nonostante l’algoritmo e il parere dei tribunali di diversi paesi – orientatesi in larga misura ad accertare il rapporto di subordinazione tra la piattaforma e il fattorino o l’autista. Si è trattato di lotte sindacali che hanno attraversato i confini nazionali – dal Regno Unito fino al Ghana. Una sorta di indignazione morale globale, che ha investito anche il nostro paese come gli organi di stampa hanno preziosamente documentato.

L’Europa

Se scegliamo la chiave di lettura offertaci dalle mobilitazioni di lavoratori tra i più precari, possiamo riconoscerci nella chiusa dell’editoriale della redazione del Guardian: «Gli Uber files forniscono l’ultima inconfutabile prova che una nuova era di regolamentazione digitale è necessaria». L’occasione da non disperdere è quella della discussione in corso a Bruxelles sulla direttiva europea sul platform work. I presupposti sono ambiziosi: la proposta della Commissione è stata, nella relazione dell’eurodeputata Gualmini, rafforzata al fine di meglio garantire il corretto status contrattuale dei lavoratori.

La partita, però, è tutt’altro che chiusa: resistenze sussistono, anche per via delle pressioni esercitate dalle aziende. Nel Ppe a frenare sono, in particolare, i legislatori dell’Europa orientale. Nota è l’avversione di Macron, cantore della Francia come Start-Up Nation: la vicinanza culturale a Uber è del resto attestata dai leaks emersi in questi giorni (Oltralpe si chiede una commissione di inchiesta). I ministri del lavoro degli altri grandi paesi sono, invece, favorevoli. Per l’Europa – parallelamente alla direttiva sul salario minimo – è un’opportunità per tornare a riprendere in mano il vessillo dei diritti. Che sia arrivato, finalmente, il momento giusto?

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