«Noi siamo con l’Europa, ma non parte di essa. Siamo legati, ma non inclusi. Siamo interessati e associati, ma non assorbiti». Con queste parole, nel 1930, Winston Churchill cercava di rappresentare l’ambiguità della politica britannica verso le faccende europee, proseguita anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, falsamente risolta con il lungo processo di adesione alla CEE (1961-1973) e sciolta, apparentemente, con la Brexit (2016-2020). Ambiguità che oggi è diventata un dilemma: cosa fare nel nuovo scenario che presenta un’America quanto mai ostile nei confronti dell’Unione europea, e intenta a giocare la solita carta della special relationship con il Regno Unito?

Quella carta è, per Londra, un’irresistibile attrattiva. Nessun primo ministro britannico resiste a lusinghe che si nutrono, nell’immaginario collettivo, di tutta una serie di simboli e modelli che vanno da Miss Marple a James Bond. In particolare, quest’ultimo: il genio britannico che soccorre il sempliciotto statunitense, muscoloso ma ingenuo, e porta a casa il risultato. Apparentemente, neppure il laburista Keir Starmer sembra fare eccezione, anche se la realtà pare più complicata dell’immaginario consolidato.

Il problema si articola in tre aspetti ampi, e solo apparentemente interdipendenti: le spese militari euro-britanniche, il problema del controllo politico su un ipotetico strumento militare, i rapporti commerciali.

Dopo il recente incontro con Trump, Starmer ha dichiarato l’intenzione di aumentare la spesa militare fino al 3% del PIL nel 2030, e sembra che pure l’Italia e la Francia accoglieranno questo orientamento portandosi ad almeno il 2,5%. Tale decisione, che accoglie gli inviti statunitensi (presenti dai tempi di JFK), è però una falsa soluzione per una “difesa europea”.

Prima di tutto non si sa ancora nulla del coordinamento che i britannici vorranno creare con gli altri europei su questo piano, e neppure l’incontro a Londra tra sedici Paesi europei domenica scorsa ha chiarito i termini della questione (ironia della storia: anche nel 1947 erano sedici i Paesi europei interessati al Piano Marshall. Un numero che all’epoca fu forse più fortunato, con un attore, gli Stati Uniti, molto diverso).

Secondo, aumentare la spesa militare non crea per magia una “difesa europea”: semplicemente aumenta la capacità dei dispositivi militari nazionali senza creare nessuna “economia di scala”. Diverso sarebbe pensare a uno strumento integrato a livello europeo accanto ai dispositivi nazionali: in quel caso si potrebbero avere risparmi dati dall’utilizzo comune di risorse e standard condivisi. Invece, come pare da ciò che filtra dal vertice londinese, si tratta solo di un aumento a compartimenti stagni, che i britannici accompagnerebbero con il loro contributo.

L’altro problema è il comando “politico” di una forza armata dell’UE. Non esiste e non può esistere una forza militare slegata da un controllo politico. Si tratta di un problema che si pose già nel 1950-52, durante la discussione per “l’esercito europeo” (la Comunità europea di difesa) al quale Alcide De Gasperi dette la risposta federalista della “Comunità politica europea”: una “testa” civile per un “corpo” militare. Cosa intendono fare i governi UE in questo scenario?

Pensare a un comando e a un finanziamento “europei” apre opzioni sovranazionali per le quali nessun governo europeo, neppure gli italiani e i francesi, hanno le idee chiare. Quindi tanto rumore per nulla: se aumentare le spese militari significa lasciare intoccata la questione cruciale del comando delle forze armate e delle direttive “europee” che devono ricevere, continentali e britannici possono dormire sonni (poco) tranquilli sul cuscino della NATO, e Trump con loro. Se invece gli europei saranno in grado di porsi qualche domanda circa l’integrazione della loro difesa e, soprattutto, una politica estera finalmente in grado di presentare una voce sola, il gioco diventerà interessante, includendo il terzo problema: l’interdipendenza tra britannici ed europei che supera di gran lunga quella tra americani e britannici. Oggi il commercio britannico verso l’Unione rappresenta la metà dell’interscambio britannico; gli Stati Uniti invece non raggiungono un terzo di quella metà. Ovvio che il miglioramento dei rapporti tra UE e Regno Unito post-Brexit rappresenta per Londra una priorità, la stessa che si pose nel 1961, quando il 60% del commercio britannico andava verso la CEE. Puntare a un accordo commerciale bilaterale con gli USA, in presenza dell’atteggiamento imprevedibile di Trump, non dà le stesse garanzie per il futuro. Forse “l’osceno connubio” Putin-Trump sta facendo il miracolo di svegliare quegli europei che ancora, in buona parte, sonnecchiano.


Piero S. Graglia è ordinario di Storia delle Relazioni internazionali, Università di Milano

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