- La frase del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ormai è famosa: «Evviva l'umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».
- Io mi sono estraniata e ho iniziato a pensare che forse non abbiamo capito niente, e in realtà stiamo vivendo all’interno di un esperimento letterario interessantissimo.
- Capitolo Uno: Il Merito. Capitolo Due: L’Umiliazione. Cosa ci riserverà il Capitolo Tre? Avrà il titolo di un romanzo di qualche autore che amiamo?
L’umiliazione è il titolo di un romanzo di Philip Roth, lo scrivo solo per ricordarvi che esiste un romanzo di Philip Roth per ogni occasione. L’occasione, in questo caso, è la frase ormai famosa del ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara: «Evviva l'umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».
La frase, l’idea pedagogica che suggerisce, ha lasciato di pietra molte persone. Il ministro ha poi fatto marcia indietro, e il discorso ha assunto i soliti contorni fumosi.
Io mi sono estraniata e ho iniziato a pensare che forse non abbiamo capito niente, e in realtà stiamo vivendo all’interno di un esperimento letterario interessantissimo.
Capitolo Uno: Il Merito. Capitolo Due: L’Umiliazione. Cosa ci riserverà il Capitolo Tre? Avrà il titolo di un romanzo di qualche autore che amiamo?
Alle elementari, un giorno, non potevo andare a visitare un museo per via di una caviglia dolorante, allora mi lasciarono per un paio d’ore in una classe non mia. Lì insegnava una maestra temuta e rispettata, non la conoscevo bene, ma sapevo che piaceva ai genitori perché con lei gli alunni erano molto disciplinati. In quella classe c’era una bambina “con qualche problema” (negli anni Ottanta non si approfondiva troppo).
La bambina quel giorno era in piedi di fronte ai poster delle lettere dell’alfabeto, ogni lettera era accompagnata da un disegno, A come ape, B come barca, C come casa. L’esercizio consisteva nel leggere ad alta voce la lettera e poi la parola.
La bambina non era capace, riusciva a dire le lettere, ma non riusciva a leggere le parole, eppure c’era il disegno, certo, era facile quasi per tutti, ma non per lei, lei non ci riusciva. Le cose stavano così. La maestra, però, insisteva.
A un certo punto disse: «Fammi vedere la lettera O». La bambina andò verso la lettera, era quella giusta, e la indicò. La maestra disse: «Bene». Poi fece una pausa ricca di mistero. Infine tuonò: «La lettera O! Sì, quella è la lettera O! O come oca! Un’oca come te!»
Questo aneddoto potrebbe proseguire, in modo classico, con uno scoppio di risa canzonatorie fra gli alunni, e invece no, la classe rimase in perfetto silenzio, pietrificata, un po’ come siamo noi oggi quando sentiamo dire che l'umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità.
Forse la violenza della situazione colpì tutti i bambini, lasciandoli di stucco. Sicuramente colpì me, moltissimo, e io non ho la pretesa di essere una persona speciale che ha più sensibilità degli altri.
Non mi stupirei se non fossi la sola a ricordarsi l’episodio a distanza di anni. E non ho mai capito cosa la maestra pensasse di ottenere, quale fosse il suo obiettivo educativo. «O come oca» è per me ancora oggi fonte di turbamento e confusione.
Non umiliare mai
Come antidoto agli spettri dell’umiliazione, suggerisco agli insegnanti un gioco da fare in classe. Chiedete ai vostri alunni cosa significa per loro essere umiliati, anzi chiedete loro di scriverlo su un foglietto anonimo che vi consegneranno. Portate a casa i foglietti. Leggeteli con attenzione. Poi? Poi niente, ponetevi come obiettivo di non umiliare i vostri studenti.
Non fate le cose che loro trovano avvilenti, trovate delle alternative, perché l’umiliazione non serve a niente, se non a farvi rimanere scolpiti come mostri nella memoria.
Sì, è vero, nei bei tempi andati i maestri mortificavano gli alunni, c’erano i cappelli con le orecchie d’asino, ci si inginocchiava sui ceci, ma nei bei tempi andati i dentisti estraevano i denti guasti senza anestesia, poi la tecnica si è evoluta. Siamo migliorati. Non si capisce perché dovremmo tornare indietro.
Più o meno nello stesso periodo di «O come oca» mi tagliarono i capelli troppo corti, me li tagliò un parrucchiere che evidentemente precorreva i tempi e voleva farmi assomigliare a Undici, la bambina speciale di Stranger Things.
Ricordo l’orrore che provai guardandomi allo specchio alla fine del taglio, ricordo i sudori freddi. Amavo i capelli lunghi, ma avevo accettato un taglio corto per semplificare le cose, “così li asciughi in fretta”. Certo però non mi aspettavo di ritrovarmi in testa un solo centimetro di capelli.
Tornai a casa, era pomeriggio, citofonò un bambino del palazzo che veniva sempre a cercarmi per giocare. Risposi che non potevo. Non volevo farmi vedere, ero terrorizzata.
Poi però pensai «Tanto, prima o poi», e uscii di casa, scesi le scale, aprii il portone, il bambino era lì. Mi guardò con curiosità. «Wow, Letizia, stai bene! Corti corti come me, così siamo uguali». Il contrario dell’umiliazione non è l'elogio, ma l’abbraccio.
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