Il problema del nuovo disordine politico internazionale è che, per fattori strutturali e fattori contingenti, non esiste nessuno in grado di prendere l’iniziativa. In subordine, ma di poco, i due conflitti più gravi sono nelle mani di uomini che sanno che il loro futuro politico dipende dal quando e dal come le “loro” guerre (operazioni militari speciali, però, non dello stesso tipo) termineranno.

Per quanto sostenere che gli Usa sono una potenza oramai declinata sia eccessivo (e prematuro), non c’è dubbio che il fattore strutturale più importante nel disordine mondiale è l’incapacità degli Usa di tornare a svolgere un ruolo quasi egemonico. Il fattore contingente, ovvero la campagna elettorale presidenziale, una volta conclusasi, fa poca differenza chi vincerà, non avrà comunque quasi nessun effetto strutturale risolutivo. Neppure ridurrà l’incertezza.

La Cina è e sembra voler rimanere un attore importante senza assumersi nessun ruolo “ricostruttivo”. La sua espansione è lenta, continua, ma non ha di mira un nuovo ordine, semmai un riequilibrio di potere più marcato a scapito degli Usa.

Potremmo cercare di gettare la croce sull’Unione europea, ma significherebbe credere, sbagliando, che l’Ue abbia risorse tali da farne una superpotenza, oggi e domani. Prendere atto che non è e non potrà essere così non condanna all’impotenza. Al contrario, suggerisce la necessità di un maggiore e meglio coordinato impegno comune fra gli Stati-membri. Stigmatizzare l’ordine sparso degli europei deve accompagnarsi alla prospettazione di iniziative diplomatiche rapide e vigorose.

Netanyahu non porta la responsabilità di avere scatenato una guerra di aggressione come quella di Putin contro l’Ucraina, ma tutti sanno che non potrà rimanere capo del governo un minuto dopo la cessazione del conflitto con Hamas e con i suoi troppi sostenitori in Medio-Oriente e dintorni.

È anche lecito pensare che, per quanto difficilissima, la sua sostituzione in corso d’opera avvicinerebbe una tregua produttiva. La, al momento assolutamente improbabile, sostituzione di Putin potrebbe condurre all’apertura, voluta da quella parte del gruppo dirigente russo che teme la satellizzazione in corso a vantaggio della Cina, di una nuova fase diplomatica (lo scambio di uomini e donne fra Russia e Usa non è stato accompagnato da nessun tipo di riflessione aggiuntiva? Non è stata seguita da nessuna presa d’atto che si può andare oltre, con vantaggi reciproci?) con esiti imprevedibili, vale a dire tutti da scoprire e fronteggiare.

Vedremo presto se la nuova Alta rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione, Kaja Kallas, già primo ministro dell’Estonia, riuscirà a dare vigore alla voce e alla presenza dell’Unione, dei suoi ideali e dei suoi interessi, nel sistema internazionale. Gli ostacoli sono molti a cominciare da quelli che in modo diverso frappongono alcuni capi di governo europei: Orbán che si esibisce in una sua personale diplomazia, Macron con la sua interpretazione del ruolo insubordinabile della Francia, Giorgia Meloni che punta molto, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, su rapporti bilaterali che le danno più visibilità che sostanza (e lei lo sa).

Anche nelle relazioni internazionali la pur comprensibile fretta a fronte dei massacri è cattiva consigliera. Poiché, però, sappiamo che quel che cambierà a Washington dopo il 5 novembre imporrà a tutti i protagonisti di riposizionarsi, sarebbe molto opportuno se in Italia e nell’Unione europea si manifestasse fin d’ora un forte impegno alla elaborazione di una pluralità di scenari alternativi. Meno lamentazione più immaginazione è il minimo che si possa chiedere.

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