- Praga ha dichiarato che utilizzerà la presidenza di turno in Ue per fare pressione affinché il settore della difesa venga aggiunto alla tassonomia dell'Unione, in modo da accedere più facilmente ai prestiti e così finanziare la ricerca e aumentare la produzione. Una proposta già avanzata a fine 2021 dai colossi dell’industria militare, tra cui l’italiana Leonardo.
- Un report appena pubblicato dalla ong olandese Pax analizza gli investimenti nel settore militare delle principali banche europee. Le quindici maggiori banche europee investono 87,7 miliardi di euro in società che vendono armi a stati coinvolti in violazioni dei diritti umani o in conflitti armati.
- Il coinvolgimento degli istituti di credito potrà sembrare scontato, ma è fondamentale analizzarlo per l’aumento dei bilanci militari e perché ciò che una volta veniva visto come un comparto da controllare è oggi invece un settore da sostenere e sussidiare. La società civile impegnata per il disarmo chiede di rafforzare e applicare regole internazionali utili quantomeno a limitarne la pericolosità.
Il generale dei marines Smedley Butler quasi novant’anni diceva, senza giri di parole: «War is a racket, la guerra è una mafia». Anche chi non è d’accordo con tale definizione deve ammettere quantomeno che «war is a business», la guerra è un business, in particolare “armato”. Perciò anche nelle dinamiche di produzione e commercio di armi è utile applicare il motto follow the money, segui i soldi, specialmente nella fase attuale di grossa espansione dei bilanci pubblici per le spese militari e in contesto in cui, ormai da decenni, il controllo diretto pubblico sulla produzione di armi si è eroso per lasciare spazio a dinamiche di puro business.
È ciò che hanno fatto gli esperti della ong olandese Pax analizzando gli investimenti nel settore militare delle principali banche europee per il report pubblicato oggi, High-risk arms trade and the financial sector.
Il report olandese e le banche europee
Secondo la loro analisi le quindici maggiori banche europee investono 87,7 miliardi di euro in società che vendono armi a stati coinvolti in violazioni dei diritti umani o in conflitti armati. Sebbene la maggior parte degli istituti di credito abbia una policy per il settore della difesa che ne delinea i rischi, alcune banche ne limitano l'applicazione al solo finanziamento di specifiche transazioni di armi. Restano così esclusi prestiti aziendali generali e collocazioni di obbligazioni per un ammontare di svariati miliardi. Poiché le aziende produttrici di armi possono utilizzare tali prestiti a propria discrezione, c’è la fondata possibilità che diventino strumentali alla produzione e al commercio di armi “ad alto rischio”.
«È incoraggiante che molte banche riconoscano effettivamente i problemi connessi al commercio di armi - sottolinea Cor Oudes, tra gli autori del report - ma è deplorevole che lacune nelle loro policies consentano il coinvolgimento in vendite di armi con impatti sui civili in molte zone di guerra».
Guerra e accesso ai prestiti
Questo coinvolgimento potrà sembrare scontato, ma è fondamentale analizzarlo per l’aumento dei bilanci militari e perché ciò che una volta veniva visto come un comparto da controllare, per gli ovvi impatti dei suoi prodotti, è oggi invece un settore da sostenere e sussidiare. Non a caso il governo della Repubblica Ceca ha dichiarato che utilizzerà la presidenza Ue per fare pressione affinché il settore della difesa venga aggiunto alla tassonomia dell'Unione, in modo da accedere più facilmente ai prestiti e così finanziare la ricerca e aumentare la produzione. Una proposta già avanzata a fine 2021 dai colossi dell’industria militare, tra cui l’italiana Leonardo.
Perdere il controllo
Lo vediamo anche con la parabola della legge 185 del 1990 – ottenuta dalla società civile, sabato scorso ha compiuto 32 anni – che ha perso una buona parte delle sue dinamiche innovative di controllo dell’export di armi. Anche a seguito di pressione da parte dell’industria militare (e della Difesa) negli ultimi anni il parlamento ha trascurato il proprio ruolo di controllo, assegnatogli da una legge che si basa sul principio che la vendita di armi non possa essere considerata un semplice business ma debba essere legata a politica estera, rispetto dei diritti umani e ruolo di pace dell’Italia sancito dalla Costituzione.
Negli ultimi anni la Relazione governativa annuale sull’export di armi – strumento di trasparenza sottovalutato e osteggiato – è invece stata discussa principalmente dalle commissioni Difesa, con un confronto solo sbilanciato sugli aspetti industriali e sulle modalità per favorire – non controllare! – la vendita di armi. Per tale motivo la Rete Italiana Pace e Disarmo sta chiedendo un maggiore coinvolgimento della società civile nel dibattito sul tema.
Le dinamiche del conflitto
Ma a essere sotto scacco sono anche le norme internazionali in un certo senso quasi direttamente ispirate dalla legge italiana. Come il Trattato internazionale sui trasferimenti di armi Att: non ancora provvisto di tutti i meccanismi di implementazione si vede ogni giorno ignorato dagli stessi stati, soprattutto europei, che lo avevano accolto nel 2014 quali strumento importante per cercare di frenare gli impatti negativi dei commerci irresponsabile di armi. Nei principi principi chiaramente espressi dal Trattato, e corroborati da studi ed analisi approfondite, si evidenzia come il flusso di armi verso un conflitto possa solo peggiorare la situazione.
Approccio assolutamente trascurato non solo nel caso della guerra in Ucraina, ma anche per molte altre drammatiche situazioni. È per questo che la società civile impegnata per il disarmo umanitario, attraverso la campagna internazionale Control Arms, continuerà invece ad impegnarsi – ad esempio nella riunione degli Stati parti dell’Att di fine agosto - per rafforzare e applicare regole internazionali utili quantomeno a limitare la pericolosità di un business militare ormai eccessivamente sostenuto anche da banche ed investitori.
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