La ministra Santanchè, dallo scranno in Senato dove era chiamata a spiegare le strane vicende finanziarie delle sue aziende semi-fallite, ha preferito non rispondere nel merito. Invece ha attaccato Domani. La risposta del direttore all’ennesimo attacco del governo contro il nostro giornale e la libertà di stampa
La ministra della Repubblica Daniela Garnero Santanchè, dallo scranno in Senato dove era chiamata a spiegare le strane vicende finanziarie delle sue aziende semi-fallite, ha preferito non rispondere nel merito. Restando nel vago sulle questioni più spinose, o facendo voluta confusione.
Come nel caso di Ki group srl, di cui ha detto di controllare «solo il 5 per cento» e di non avere dunque alcun potere di gestione della società, dimenticando però di spiegare all’aula di far parte di un patto parasociale per «l’esercizio congiunto del controllo» della stessa azienda.
La fedelissima di Giorgia Meloni, soprattutto, ha tentato la classica mossa del cavallo. Attaccando con violenza inusitata la stampa libera e in particolare Domani. Colpevole solo di aver scritto, con un’inchiesta di Giovanni Tizian, una notizia vera: l’iscrizione della Santanchè nel registro degli indagati dalla procura di Milano nell’ambito dell’indagine su bancarotta e falso in bilancio sulla sua società Visibilia.
«O Domani mente sapendo di mentire, oppure sceglie il giorno del mio intervento per una classica imboscata per colpire un ministro del governo contro cui si scaglia ogni giorno. È normale che un giornalista può scrivere cose segretate ignote all’interessato?». Santanchè si ritiene vittima di «una campagna d’odio», sopraffatta da «pratiche sporche e schifose: se non fosse per il rispetto che porto a quest’aula dopo l’uscita proditoria del Domani chiuderei qua il mio intervento».
Ora, se Santanchè avesse davvero rispetto per le istituzioni che rappresenta, dovrebbe dimettersi all’istante. Non per l’indagine dei pm, il cui esito è tutto da valutare. Ma perché è lei ad aver mentito in Senato, non Domani.
Sul suo reale peso nella srl, e sulla sua iscrizione (non più secretata da mesi). Soprattutto, dovrebbe lasciare per i conflitti di interessi tra i suoi affari privati e il suo ruolo politico e per l’indegna intimidazione rivolta ai media.
Solo in democrazie sudamericane membri del governo si scagliano con tale violenza sulla libera stampa che racconta fatti verificati su un suo ministro di punta. Le notizie, poi, vengono divulgate quando si hanno le necessarie conferme, e soprattutto senza chiedere il permesso al potente di turno sul timing gradito per la pubblicazione.
È l’ennesima volta che l’esecutivo di destra attacca il nostro giornale: la premier Meloni ci ha mandato a processo per un articolo sulle mascherine che la citava, e poi criticato duramente – senza smentire una riga – l’inchiesta sugli affari della madre; addirittura il sottosegretario Claudio Durigon ha mandato qualche settimana fa i carabinieri a “sequestrare” in redazione un pezzo che non gli piaceva.
Tutto in un clima mefitico per chi prova a dare qualche notizia sui membri dell’esecutivo. Un invito dunque a Meloni e i suoi giannizzeri: accettino le critiche della stampa, come accade in tutti i paesi occidentali evoluti. Sarebbe un bene per tutti. Anche per loro.
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