L’economista Elinor Ostrom ha dedicato la vita allo studio di piccole comunità sociali e a come esse riescano a gestire le proprie risorse collettive. Rimase affascinata dall’argomento già a partire dagli anni Sessanta, in polemica contro chi preconizzava la dissoluzione delle economie locali nel villaggio globale. Viaggiando tra i pascoli Svizzeri e le lande della Mongolia, scoprì al contrario che c’è chi vive benissimo gestendo in autonomia i “propri” beni comuni. La sua ricerca la porterà a diventare la prima donna a vincere il premio Nobel per l’Economia nel 2009.
Oggi il suo lavoro torna di grande attualità, giacché lo stesso villaggio globale è chiamato a misurarsi con la sfida epocale del governo delle risorse collettive. Ma sorge un problema: il modello da lei analizzato presuppone che, per una gestione efficace, ogni membro della comunità debba impegnarsi nel mantenimento del bene comune. Un dovere garantito dalla forma più autentica e antica di contratto civile: la fiducia reciproca. Tutto ciò funziona se siamo tra i 400 abitanti di Törbel, nel Canton Vallese; un po’ meno in una grande città o nazione, dove non c'è modo di garantire che tutti i membri ottemperino realmente al patto sociale.
Sembra dunque insensato provare ad applicare le teorie di Ostrom a realtà più estese e complesse; eppure anche lei deve aver immaginato che ogni comunità, per quanto accresciuta, sia in origine germinata attorno alla cura condivisa del proprio bene comune. Ma come preservare quella fiducia iniziale di fronte a una inevitabile espansione?
Due esempi
Proviamo a rispondere attraverso due esempi. Israele, oggi squassato da inimicizie profonde e conflitti interiori, nacque da un ristretto gruppo di fondatori, legati da una conoscenza personale e una fiducia reciproca tali da conferire valore unitario alle scelte intraprese. In maniera a tratti analoga, il primo nucleo dell’Unione europea affonda le sue radici nell’inedita alleanza tra i sei paesi firmatari dei Trattati di Roma del 1957: le comuni esperienze di liberazione dal totalitarismo furono all’origine dell'intesa e della fiducia che si vennero a creare tra i delegati presenti, permettendo a personalità come Segni, Adenauer e Pineau di firmare quegli accordi. Entrambe le vicende hanno poi vissuto un seguito simile: una volta sancito il patto, gli architetti di quei progetti non hanno saputo consolidarli in contratti sociali duraturi, capaci di riparare il bene comune dalle intemperie del tempo. Né Israele né l’Europa sono infatti riuscite a dotarsi di una costituzione, augurandosi forse che quella fiducia sarebbe durata per sempre.
Molte altre comunità hanno optato per un percorso diverso, arrivando a “codificare” il rapporto personale che legava i loro fondatori. Per il nostro paese, i 55 padri e madri costituenti furono davvero una piccola comunità di donne e di uomini uniti da un patto chiaro e scritto: «Mai più il fascismo».
Le motivazioni originarie
Oggi appare arduo immaginare come Israele o l’Europa possano rimediare a quella scelta originaria. Non solo a causa dell’esplosione demografica, ma della natura stessa della politica contemporanea: animata da governi e alleanze che variano in continuazione, diventa un terreno ostico sul quale costruire rapporti solidi di conoscenza e rispetto. Sarebbe possibile solo se si riuscisse a recuperare le motivazioni vissute in origine. Ma se viene a mancare la risorsa primaria, la fiducia, allora il patto sociale dovrà trovare altri garanti: la memoria condivisa e il rispetto per il dolore, ad esempio. Israele è nata al grido “mai più la Shoah”, l’Europa “mai più la guerra” e quei principi sono ancora validi e solidi.
In fondo, fatte le debite proporzioni, le decisioni vitali per una nazione non sono tanto diverse da quelle delle comunità care ad Elinor Ostrom. Il più delle volte si tratta di stabilire quante e quali mucche potranno brucare nel pascolo comune. Ma se non sarà la fiducia a metterci d’accordo, lo farà la consapevolezza delle ragioni dietro a tale decisione: il latte alla fine serve a tutti.
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