- Vorrei spezzare una lancia in favore del linguaggio dell’idealità (che non è quello dell’ideologia), soprattutto quando, anche a costo di far storcere il naso ai politologi, dice pane al pane.
- Senza voler difendere l’indifendibile, cioè il caos delle normative italiane e non solo quelle sulla vaccinazione, vorrei far notare che a causarlo è precisamente il disprezzo dello “spirito delle leggi”, cioè dell’idea stessa che esista per le norme un fondamento di valore o di senso indipendente dalla volontà (politica) del legislatore, che questi può assecondare o snaturare.
- L’obiettivo del “mai più guerra” solo “ora” sembra alla portata del potere umano. Una nuova configurazione della sovranità, senza cui l’esercizio del potere è arbitrario: nuovi vincoli normativi. Una federazione mondiale di repubbliche. Se non ora, quando?
In una bella riflessione apparsa su Domani dell’11 aprile Gianni Cuperlo si sofferma su alcune recenti espressioni del presidente del Consiglio Mario Draghi in tema di politica estera – sul “dittatore” turco, con cui però bisogna fare accordi nell’interesse dell’Italia; sul gruppo dirigente libico, ringraziato per i salvataggi dei migranti in mare nonostante i forti dubbi dell’Onu sul destino che li attende nei campi profughi; sulla politica verso l’Egitto, infine, il cui regime sanguinario è bensì denunciato dal parlamento italiano, mentre però l’industria pubblica italiana continua a rifornire di mezzi bellici e armi lo stato egiziano. Cuperlo medita sul paradosso – ben noto al pensiero politico di ogni tempo – della difficile combinazione di ideali e realismo in una politica che voglia essere al contempo giusta e vincente. Dove la parte dell’ideale la fa la difesa dei diritti umani fondamentali, «l’unica utopia universale rimasta». E dove è ben condivisibile l’auspicio che un grande paese come la patria del Beccaria, «forse un po’ più di altri, dovrebbe non limitarsi a cercare il giusto equilibrio, ma capire come in un mondo privo di un chiaro ordine e in un tempo segnato da una democrazia più “fragile” si possa trovare la via per affermare il primato di alcune verità». In una riflessione altrettanto incisiva, sempre su questo giornale, Nadia Urbinati riprende lo spunto, aggiungendo al pronunciamento di Draghi sulla dittatura turca il suo rimbrotto tutto domestico ai salta-fila delle vaccinazioni.
Qui però l’indicazione sembra andare nella direzione inversa: qui l’ideale, dunque la coscienza che ne è smossa, non c’entrano nulla, sostiene l’autrice. Quello che è in questione qui sono le norme. Violare le norme non è un affare di coscienza, ma un affare di legge. E seguirle pure. Se sono sbagliate, è con le norme e chi le ha fatte, non con le coscienze che bisogna prendersela. Questo getta una luce inquietante anche sulla «franchezza» con cui il premer ritiene giusto «esprimere la propria diversità di vedute» rispetto alla «dittatura» turca.
Così – conclude Urbinati – non si fa che mettere «la nostra coscienza in pace con sé stessa. Loro sono il male, non noi». Insomma, in entrambi gli autori il linguaggio degli ideali ci fa una brutta figura: nella prospettiva di Cuperlo, perché bisognerebbe andare al di là della loro proclamazione, invece di sbandierare i diritti umani universali e agire da relativisti etici. In quella di Urbinati, perché è un linguaggio comunque fuori posto: o copre le manchevolezze del legislatore, o pacifica la “nostra” cattiva coscienza, esportando su altri la colpa. Le parole alimentano non una fede ma la malafede. L’idealità è ridotta all’ideologia.
La lingua dell’idealità
Vorrei spezzare una lancia in favore del linguaggio dell’idealità (che non è quello dell’ideologia), soprattutto quando, anche a costo di far storcere il naso ai politologi, dice pane al pane: e forse il pane non è soltanto l’autocrate turco, ma anche chi non vede l’ora di approfittare dei varchi interpretativi che sempre e per definizione anche la migliore normativa lascia aperti alla furbizia, come sa chiunque conosca il regresso all’infinito cui conduce il tentativo di chiuderli. Senza voler difendere l’indifendibile, cioè il caos delle normative italiane e non solo quelle sulla vaccinazione, vorrei far notare che a causarlo è precisamente il disprezzo dello “spirito delle leggi”, cioè dell’idea stessa che esista per le norme un fondamento di valore o di senso indipendente dalla volontà (politica) del legislatore, che questi può assecondare o snaturare.
In altre parole, è un difetto e non un eccesso di attenzione alla giurisdizione della coscienza e alla luce dell’ideale, quello che produce malafede e ideologia: anche da parte del legislatore (politico), e del suo tecnico (il giurista). Realpolitik e positivismo giuridico hanno causato troppi disastri nella storia moderna per non tenerne conto. È vero: il «primato di alcune verità» va affermato non solo in teoria ma anche in pratica (Cuperlo). La questione è come: è qui che un piccolo supplemento di filosofia può forse non essere inutile a illuminare la via, quella di aumentare la forza del diritto e quindi delle istituzioni sovranazionali (compresa l’Unione europea), diminuendo in proporzione il potere di ricatto degli autocrati sugli interessi nazionali.
Da sempre, o almeno dall’Atene di Pericle, il governo arbitrario “dell’uomo” si distingue dal governo “della legge”, come la sovranità politica, qualunque sia la sua fonte, si distingue dalla tirannia. Da sempre l’esercizio del potere politico cerca la giustificazione e il fondamento del diritto per distinguersi come potere legittimo dal potere nudo, che coincide al limite con il bruto esercizio della forza. In questo senso, però, diritto e potere politico sono due facce della stessa medaglia, come limpidamente chiarì Norberto Bobbio nel suo Diritto e potere (1992). Diciamo che dal punto di vista ideale viene prima il diritto e poi il potere, perché il diritto è ciò che distingue il potere legittimo dal potere nudo, la sovranità “valida” dal dominio di fatto e l’ordine civile dalla guerra, esterna o interna.
Ma dal punto di vista reale e “realista” viene prima il potere e poi il diritto, perché un ordinamento giuridico esiste soltanto se esiste a suo fondamento un potere capace di tenerlo in vita e di conferirgli efficacia. Però: la verità che noi cogliamo nei momenti (rari) di speranza o addirittura entusiasmo civile è che qualunque sia l’ordinamento giuridico in questione, chi esercita il potere legittimo in qualunque delle sue forme va veramente nella direzione di un esercizio del potere a nome del diritto solo se questo potere lo esercita nel senso dello “spirito” delle leggi e non soltanto della loro lettera.
Il passaggio è: dalla norma al valore che la fonda. Se cioè sa cogliere, approfondire e anche attuare, se necessario suscitando l’istituzione di leggi migliori, il valore per realizzare almeno in parte il quale le leggi e gli ordinamenti giuridici umani accampano di esistere. E qui è sempre una questione di scoprire cose nuove rispetto alla lettera della legge, perché è nella natura dei valori di avere contenuti inesauribili, che volta a volta l’esperienza umana rende visibili, o di cui fa sentire il grido.
Un apologo
Un apologo concluderà questo ragionamento. “Mai più guerra” è il grido che risuona alla fine della Prima guerra mondiale, con una forza mai percepita prima. Teoricamente la possibilità era stata evocata un secolo e mezzo prima (Kant, Sulla pace perpetua). Ma solo “ora” sembra alla portata del potere umano. Una nuova configurazione della sovranità, senza cui l’esercizio del potere è arbitrario: nuovi vincoli normativi. Una federazione mondiale di repubbliche, una nuova configurazione della civiltà. Eppure Woodrow Wilson, che aveva suscitato un’onda di entusiasmo mai vista prima, non riesce a imporre una pace “a nome del diritto”: il mondo soggiace alla catastrofica pace di Versailles, prodromo di nuove tragedie. Non certo perché Wilson non parlasse il linguaggio dell’ideale! Ma perché nessuno allora seppe puntare la sua luce sul reale, abbastanza da scoprire come salire un passo nella “via all’insù” che in politica è legata a filo doppio con la “via all’ingiù”, come l’anima alla carne che la sorregge.
Forse questa «ambiguità che pesa come un macigno» (Cuperlo) non riguarda solo l’occidente. È l’antinomia pratica: bisogna mangiare per salvare gli affamati, disporre di un potere sufficiente per agire bene. In politica, occorre individuare l’elemento normativo che corrisponde al “nuovo grido”. Draghi ben lo conosce ormai, Cuperlo l’ha suggerito: una vera sovranità sovranazionale, una nuova configurazione di civiltà, basata su una nuova configurazione del potere. Una opportunità mai vista prima si presenta oggi di instradare la politica reale sulla “via all’insù”. Perché ancora non accade? Se non ora, quando?
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