Ci sono molte somiglianze tra il dibattito francese e quello italiano sulle rispettive manovre di bilancio e sulla distribuzione dei costi del consolidamento fiscale. Nel giugno scorso la Commissione europea ha messo i due paesi (insieme ad altri cinque) in procedura di infrazione per disavanzo eccessivo, nel quadro del riformato Patto di stabilità.

Entrambi i governi devono quindi mettere le finanze pubbliche su di un sentiero di riduzione del disavanzo (e a medio termine del debito). Ed entrambi hanno previsto manovre lacrime e sangue: sessanta miliardi (il 2 per cento del Pil) per il governo Barnier, che secondo molti economisti va ben oltre quanto domandato dalla Commissione; intorno ai venticinque per il governo Meloni.

Infine, entrambi i governi, costretti a rispondere a una domanda di equità che è sempre più forte tra elettori esausti e impoveriti, cercano di addolcire la medicina comunicando sul fatto che i più benestanti sono chiamati a uno sforzo maggiore nel risanamento delle finanze pubbliche (Barnier parla di «giustizia fiscale» praticamente ogni volta che prende la parola in pubblico).

Tanto fumo e poco arrosto

Ma, sia in Francia che in Italia, oltre la comunicazione, di giustizia fiscale ce n’è ben poca, e lo sforzo richiesto a chi in questi anni ha potuto arricchirsi è irrisorio. Il governo italiano parla di un «sacrificio» richiesto alle banche più in salute, di circa 3,5 miliardi spalmati sul 2025 e il 2026, sostenendo che queste risorse andranno a finanziare la sanità. Salvo che, in primo luogo, se di “sacrificio” si trattasse, questo sarebbe comunque limitato (alcuni stimano i profitti eccezionali incamerati negli ultimi due anni fino a cento miliardi); soprattutto, non ci sarà un aggravio d’imposta (né permanente né una tantum) ma solo un anticipo su imposte future, che le stesse banche recupereranno nel 2027.

In pratica, il governo attinge alla liquidità delle banche, il cui “sacrificio” si riduce quindi ai mancati guadagni derivanti dall’investimento di questa liquidità. Si tratta insomma di un piuttosto ben riuscito esercizio di comunicazione che nasconde una realtà ben diversa: infatti continua il cammino verso una flat tax (imposta regressiva che va a beneficio dei più ricchi), si riparla di condono (per il periodo 2018-2022) fiscale, con l’autonomia differenziata si approfondiscono le disparità territoriali in termini di servizi pubblici e contrasto alla povertà e, infine, si esprime la volontà di ridurre la tassazione sulle rendite finanziarie.

Anche in Francia la sbandierata giustizia fiscale si riduce a poca cosa. Se è vero che, rompendo il tabù macronista della riduzione delle tasse, Barnier ha annunciato una manovra che per due terzi sarà costituita da maggiori introiti fiscali, è anche vero che non si vede un vero cambiamento di rotta in termini di riequilibrio del contributo dei più benestanti al risanamento dei conti.

La misura faro della legge di bilancio è un’imposta di solidarietà temporanea, per tre anni, sui redditi più elevati (sopra i 500.000 euro per una coppia), per portare il loro tasso d’imposizione medio al 20 per cento.

Si tratta di circa 25 mila famiglie, e il gettito previsto (ottimisticamente) è di meno di due miliardi annui; un contributo simbolico, insomma.

La soppressione della patrimoniale e la flat tax sui redditi da capitale, volute nel 2017 da Emmanuel Macron, non sono state toccate. È peraltro interessante notare che giovedì scorso il parlamento ha introdotto degli emendamenti che inaspriscono almeno un po’ il giro di vite sui più benestanti. Su iniziativa di deputati di destra (di solito non esattamente sensibili a questi temi) è stato eliminato il limite dei tre anni per il contributo di solidarietà, è stata votato l’aumento dell’aliquota della flat tax sui redditi da capitale dal 30 al 33 per cento, è stata un po’ inasprita la “exit tax”, l’assoggettamento al fisco francese di una parte dell’imponibile dei francesi che spostano la residenza fiscale all’estero.

Tassare i patrimoni

Rimane tuttavia la questione dei patrimoni, nei quali si annida l’aumento della disuguaglianza (i più benestanti riescono spesso a eludere il fisco per una parte consistente del proprio reddito). A questo proposito, l’Insee, l’istituto statistico francese, ha nei giorni scorsi fornito cifre sconfortanti: tra il 1998 e il 2021, il patrimonio medio reale (cioè includendo gli effetti dell’inflazione) del 10 per cento dei francesi più poveri è diminuito del 54 per cento, mentre quello del 10 per cento più ricco è aumentato del 94 per cento, principalmente grazie all’esplosione dei prezzi sui mercati immobiliare e azionario.

Da qualche mese viene discussa in sede del G20 la proposta di una tassazione minima globale delle grandi fortune che, proprio in virtù dell’aumento fenomenale della concentrazione, anche con aliquote molto basse consentirebbe di reperire risorse per stabilizzare le finanze pubbliche e finanziare gli investimenti in beni pubblici globali come l’ambiente, la salute, l’istruzione.

Thomas Piketty su Le Monde si prende la briga di entrare nel merito degli argomenti dei molti che continuano a ritenere una tassazione dei grandi patrimoni non attuabile, in primo luogo quello per cui i capitali fuggirebbero se un governo osasse tassarli. Un problema che secondo Piketty è tale solo perché non esiste la volontà politica di affrontarlo. Gli Stati Uniti, ad esempio, tassano redditi e patrimoni in base alla nazionalità e non solo alla residenza. Inoltre, la già menzionata exit tax consentirebbe di disincentivare la fuga dei contribuenti dal paese perché questi rimarrebbero per molti anni tassabili nei paesi d’origine.

Infine, se ci fosse coordinamento tra i vari paesi (è il senso della proposta dibattuta dal G20), si ridurrebbe di molto la possibilità di eludere il fisco cambiando residenza.

Una tassa di scopo europea

Insomma, per una giustizia fiscale che non sia solo di facciata e buona per i social, occorre riuscire a mettere il sale sulla coda sui grandi patrimoni, dove si annida l’enorme disuguaglianza creatasi negli ultimi anni.

Se fossero seri, i governi europei potrebbero accordarsi per una tassazione coordinata dei patrimoni, eventualmente temporanea e di scopo: potrebbero ad esempio tenerla in vigore fino al ritorno ai livelli di debito del 2019, prima di Covid e inflazione. Se e come rendere permanente questa redistribuzione del carico fiscale potrebbe essere deciso in un secondo momento, con un processo democratico che non sia come oggi alterato dall’urgenza del “pochi maledetti e subito”.

Tassare i patrimoni europei a un tasso comune, aggiungendo una exit tax coordinata per minimizzare le fughe di capitali, consentirebbe di tornare a livelli di debito “normali” (se questa parola ha un senso; ma questa è un’altra questione) senza pesare sui redditi più bassi e senza tagliare la spesa sociale e gli investimenti: qualcuno ricorda ancora gli 800 miliardi annui evocati dal rapporto Draghi solo qualche settimana fa? Soprattutto, darebbe agli elettori il segnale che la lotta alla disuguaglianza è finalmente diventata la priorità per i policy maker europei.

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