Una transizione ecologica senza investimenti favorirà i nostri concorrenti mentre noi dovremo sobbarcarci i costi distributivi
Le cronache dei giorni scorsi sono ricche di spunti. La rivolta dei trattori, iniziata in Germania, si estende a macchia d’olio in molti paesi europei. I “gilet verdi”, come sono stati battezzati in Francia gli agricoltori che protestano, lamentano una normativa sempre più vincolante e una fiscalità svantaggiosa (ad esempio sul gasolio). Con il sacrosanto obiettivo di favorire la transizione verde, queste misure rendono l’agricoltura europea sempre meno competitiva rispetto a paesi molto meno esigenti in termini di standard ambientali.
La seconda notizia è il grido d’allarme lanciato dal patron della Tesla Elon Musk di fronte all’ascesa dei marchi cinesi di auto elettriche che, sono parole sue, senza appropriate misure protezionistiche “demoliranno” i produttori statunitensi sui mercati globali.
Quello che colpisce in questo caso non è tanto il clima da guerra commerciale, quanto il fatto che l’Europa in questa guerra non è nemmeno menzionata. Un articolo di Bloomberg evidenziava di recente come nel 2023 sia stato installato un numero record di pannelli solari nell’Unione europea, ma anche che questo sia avvenuto a spese dei produttori europei che continuano a perdere quote di mercato a favore di concorrenti cinesi.
Una transizione da gestire
Cosa lega queste notizie? Principalmente la difficoltà che in Europa la mano pubblica ha nell’indirizzare e gestire la transizione ecologica. Nonostante qualche irriducibile negazionista, c’è consenso nella comunità scientifica sul fatto che la transizione ecologica non sia un’opzione tra le tante ma una (urgente) necessità.
Ma inizia ad emergere con sempre più forza anche che la transizione ecologica, al pari delle grandi rivoluzioni tecnologiche del passato, sarà anche un affare. I vantaggi in termini di innovazione e crescita, insieme al risparmio delle ingenti risorse che oggi sono sprecate per la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico, sarebbero tali da compensare i maggiori costi della sobrietà, di catene del valore più corte etc.
Un lavoro recente stima che in caso di transizione riuscita alla neutralità carbonio nel 2050, il Pil annuo potrebbe essere fino al 7 per cento più elevato di quanto non sarebbe nello scenario a politiche invariate. Insomma, per dirla con gergo da economisti, la transizione ecologica sarà un gioco a somma positiva.
Ma non tutti ci guadagneranno. Alcuni settori saranno ridimensionati o addirittura spariranno; alcune competenze non saranno più richieste, mentre altre diventeranno preziose. Insomma, ci saranno, come per ogni cambiamento strutturale dell’economia, vincenti e perdenti. Per questo è fondamentale l’intervento correttivo della mano pubblica.
Il problema
L’Unione europea ha da tempo una consapevolezza dell’urgenza di una transizione verde che non è dato osservare altrove. Questo ha portato a scegliere una strategia per la transizione basata su regole volte ad indurre i comportamenti virtuosi di imprese e famiglie. Certo, sicuramente si può fare di più e molte scelte sono distorte dal peso delle lobbies.
Ciononostante, la strategia scelta si è complessivamente rivelata efficace per una riduzione rapida dell’impatto ambientale dell’attività: l’Ue è la sola grande economia che ha ridotto significativamente le emissioni di gas serra dal 1990 ad oggi. Ma questo rende ancora più evidente il problema distributivo, come testimonia la rivolta dei trattori di questi giorni, o anche quella dei gilet gialli del 2019, innescata dall’introduzione di una “tassa ecologica” sul gasolio.
La soluzione non risiede nell’abbandonare la regolamentazione che, ripetiamolo, si dimostra efficace. Non si tratta ad esempio di rivenire decisione di mettere al bando i motori termici nelle autovetture commercializzate a partire dal 2035; ma di far sì che i veicoli elettrici siano abbordabili e prodotti in Europa in modo da generare redditi per lavoratori e imprese nostrane. Ed è qui che emerge il vero problema che si trova a fronteggiare l’Europa.
Investire nel cambiamento
Per raccogliere i frutti della transizione occorre infatti investire in modo massiccio nella ricerca di base e nelle infrastrutture necessarie alla decarbonizzazione dell’economia, in modo da incentivare l’investimento privato e favorire l’innovazione.
Un capitolo di un recente rapporto da me curato con Floriana Cerniglia quantifica in quasi due punti aggiuntivi di Pil i bisogni di investimento pubblico legati alla transizione ecologica. E il verdetto è senza appello. I tre grandi programmi per la reindustrializzazione lanciati dall’Amministrazione Biden, l’Inflation Reduction Act il Chips Act l’Infrastructure Bill, prevedono in totale circa 1.400 miliardi di dollari di investimenti pubblici aggiuntivi in dieci anni. A fronte di questi, da noi il programma Ngeu ha stanziato 750 miliardi di euro per i Pnrr.
Negli ultimi anni l’Europa ha moltiplicato le iniziative per favorire la transizione ecologica e l’autonomia strategica, dal Green Deal al Fit for 55, passando per RePower EU. Ma si tratta, di pacchetti incentrati su di un miglior coordinamento delle politiche e sull’efficientamento della spesa esistente. Al di fuori di NGEU, le risorse fresche sono briciole.
Il cambio di marcia
Insomma, in un momento di snodo dettato dal riscaldamento climatico, l’Europa in preda ai vecchi riflessi di frugalità pubblica e privata mette in opera una politica industriale del “vorrei ma non posso” o, meglio, “potrei ma non voglio”.
Una transizione ecologica senza investimenti adeguati rischia di far perdere all’Europa il treno dell’innovazione tecnologica i cui frutti in termini di crescita e benessere andranno ad altri che avranno investito per tempo. Come dimostra l’esempio dei pannelli solari evocato sopra, nel gioco a somma positiva rappresentato dalla transizione ecologica al momento i benefici vanno in tasca ai nostri concorrenti mentre il cerino dei costi rimane in mano a noi.
Non è troppo tardi per riequilibrare la politica industriale europea. Ma occorre un deciso cambio di marcia. Dopo la deludente riforma del Patto di Stabilità e Crescita non si può sperare che gli investimenti necessari vengano dai governi nazionali, le cui mani rimangono legate. Diventa urgente rimettere al centro della discussione sull’assetto istituzionale europeo la creazione di una capacità di bilancio centrale.
Questa consentirebbe di provvedere alla stabilizzazione economica e a finanziare i beni pubblici europei con maggiore efficacia e costi minori rispetto alle politiche nazionali. Soprattutto, renderebbe più facile e più stabile il finanziamento di progetti di investimento transnazionali. È un cantiere che al momento non è nemmeno avviato. Ma per tentare di recuperare il tempo perduto è importante superare le resistenze e metterlo al centro dell’agenda dei prossimi anni.
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