Il grande economista torinese Piero Sraffa, anche quando insegnava a Cambridge e godeva della stima di John Maynard Keynes, non è mai stato iscritto ufficialmente al Partito comunista italiano. Ha, però, amato sempre definirsi, con qualche civetteria, “un comunista indisciplinato”.

Per i rapporti di grande amicizia e solidarietà mantenuti con Antonio Gramsci, detenuto nelle carceri fasciste, Sraffa è stato identificato solo col partito da quest’ultimo fondato. Come hanno argomentato Luciano Canfora e Francesco Forte, lo si è sospettato anche di essere un suo agente o addirittura una talpa del Komintern.

La ricostruzione della biografia di Sraffa, quasi anno per anno, si è venuta allineando all’immagine di Gramsci rilanciata dai dirigenti della Fondazione che reca il suo nome. Ne è derivata qualcosa che va ben oltre la preziosa raccolta di documenti a cura soprattutto di Nerio Naldi, Giancarlo De Vivo eccetera.

L’intento sembra essere quello di stabilire una sorta di uniformità, eadem sentire, tra due protagonisti del Novecento, ognuno nel proprio campo. In realtà la fortissima amicizia non impedì che restassero diversi. L’esempio più importante, quasi plateale, fu l’atteggiamento che ebbero nei confronti dell’Unione sovietica.

Il totalitarismo

Gramsci alla fine della sua riflessione nei Quaderni del carcere, pur disponendo di pochi mezzi e accessi alla bibliografia, farà un giudizio molto preciso della gestione del potere da parte di quello che amava chiamare «il partito mondiale della rivoluzione», vale a dire il partito bolscevico. Erano diventati, ai suoi occhi, uno Stato, una società e un partito diversi da quello auspicato e idealizzato.

Scrivendo qualche mese dopo la rivoluzione del 1917 aderì, com’è stato detto da Silvio Pons, «all’idea e alla pratica della dittatura proletaria quale istituto garante della libertà. Egli non sembra sfiorato dal dubbio, presente tra i socialisti europei dell’epoca, che il potere del partito possa esautorare l’autogoverno consiliare».

In origine Gramsci sembra, invece, disponibile alla costruzione di quello che sarà un mito duro da scalfire nei decenni successivi. Pertanto si fa banditore dei Soviet e del partito bolscevico come «“organismi” integrati del nuovo ordine, capaci di creare nuove gerarchie fondate su un’“autorità spirituale”, fonte di socializzazione e di una cittadinanza responsabile».

Nei Quaderni dal carcere preciserà ulteriormente un’altra convinzione destinata ad avere scarsa fortuna: cioè la sua idea del “carattere di massa” avuto dal fascismo, e dal comunismo.

Per entrambi ricorre al concetto di totalitarismo. Ne farà un uso senza intenzioni negative ed esecratorie. Ma sarà proprio questa, direi fino ad oggi, l’interpretazione che avrà il maggiore successo.

Infatti, immediatamente dopo la prima guerra mondiale e fino agli anni Venti si liquiderà il fascismo come la costruzione di uno stato tirannico, fondato sull’uso della violenza e sul controllo poliziesco o espressione degli interessi agrari e industriali più reazionari. È stata l’opinione di un dirigente comunista come Luigi Longo, di un giurista come Piero Calamandrei e di polemista radicale come Ernesto Rossi.

Tutti gli aspetti negativi segnalati nella politica mussoliniana ci furono, e non isolatamente, fino a confluire in quello che è stato chiamato paradigma antifascista.

Nell’uso che Gramsci farà di questo schema esplicativo della realtà italiana e sovietica, totalitarismo designa le trasformazioni istituzionali e politiche del nuovo stato. Ne metterà in rilievo le loro connessioni con i mutamenti in profondità dello stesso corpo sociale, del retroterra di massa, grazie alle tendenze inedite palesatesi negli anni Trenta nell’economia, della società e dello stato.

Bisognerà arrivare alle ricostruzioni di Renzo De Felice, di Einaudi, e soprattutto a quella più recente di Guido Melis, de il Mulino, per incrinare questo iter interpretativo consolidatosi in un vero e proprio senso comune.

Il bonapartismo

Nel periodo che coincide con la progressiva fine della sua vita l’investimento fiduciario prima rilevato nei confronti dell’Urss si è assai indebolito. È venuto meno lasciando posto a uno scetticismo pronunciato.

Da metà degli anni Trenta in avanti Gramsci non vede dominare al Cremlino la dittatura bolscevica. Come ho detto, con una forzatura lessicale concettuale inedita, originariamente venne concepita come istituto garante della libertà. Parlerà, invece, di un dispotismo.

Lo evoca col termine di bonapartismo, un controllo molecolare a opera dei corpi di polizia, uno sviluppo abnorme della burocrazia, una chiusura a riccio in sé stesso del partito, cioè senza più la vocazione internazionalista delle origini.

Non si forza l’analogia se si sostiene che da Stalin a Putin la situazione non sembra molto cambiata. Sugli esiti della gestione proletaria del potere statuale e sociale da parte del Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) il giudizio di Gramsci è, dunque, particolarmente severo.

il pensiero di Sraffa

Diverso lo stato d’animo del suo amico Piero Sraffa. Nel 1930 effettuò un viaggio in Urss, anticipando di qualche anno quello del suo compagno e collaboratore, iscritto al partito comunista britannico, l’economista Maurice Dobb, insieme a Keynes.

In assenza di altre fonti è possibile ricavare il giudizio di Sraffa sullo stato dell’economia sovietica, basandosi sul violento attacco che egli mosse, su sollecitazione dello stesso Keynes, all’esponente della scuola austriaca del liberalismo, Alfred von Hayek.

Insieme al suo collega e ispiratore, l’economista Ludwig von Mises, aveva tempestivamente delineato l’itinerario della pianificazione staliniana. Dopo una prima fase – in cui Moses sbagliò il giudizio, formulandolo pregiudizialmente in termini negativi – cominciò a pencolare verso contorsioni e distorsioni economiche. Non solo sul piano della teoria, ma ben oltre, fino a mettere a repentaglio principi elementari e basilari come i diritti, a cominciare dalle libertà dei cittadini.

Una tale capacità di previsione su quello che sarebbe stata la radice della crisi, se non si vuol dire il progressivo disfacimento, dell’immenso sistema economico creato, non sembra aver avuto grande importanza per Sraffa.

L’effetto, anzi, è stato contrario. La denuncia, anche in sede di previsione, del fallimento economico del comunismo sovietico per Sraffa costituì una ragione più che sufficiente per abbandonarsi a vere e proprie campagne – diciamo pure esecuzioni sommarie. A esserne destinatari furono proprio i due grandi studiosi austriaci del liberalismo.

In realtà, le vittime furono tre. Lo stesso destino venne, infatti, riservato a un altro viennese come E.Bohm-Bawerk. Nel redigere l’elenco dei classici dell’economia marxista per il programma editoriale di Einaudi – dove, insieme a Giolitti, dirigeva una specifica collana – Sraffa pose il veto all’inserimento, proposto dal suo partner, della polemica con Hilferding.

einaudi

Dopo la seconda guerra mondiale, quando nel 1947 accettò la nomina a consulente editoriale della Einaudi, sarà in prima linea nel favorire o proporre la traduzione in italiano di una saggistica che delle condizioni dell’Urss dava un’immagine se non positiva certamente rassicurante rispetto alla condanna dell’economia e della politica degli Stati Uniti e dei paesi occidentali.

Farà pubblicare gli scritti di giornalisti e studiosi, per lo più inglesi, che ne davano un giudizio positivo. La chiamava “buona posizione” con riferimento al terreno politico. Per fare un esempio. Gli va bene, e ne consiglia la traduzione italiana, The Spirit of Post-War Russia. Soviet Ideology 1917-1946 di Rudolf Schlesinger, edito da Dennis Dobson. Il motivo: «L’autore è un socialista simpatizzante per l’Urss».

In secondo luogo, continua Sraffa, non si pone, dando risposte assai rassicuranti, le domande classiche «di quelli che fanno simili domande» – metafora per segnalare gli anti-comunisti – cioè se l’Urss sia uno Stato totalitario, se al suo interno ci sia libertà, sulla serietà dei processi-farsa del 1938, il periodo del Grande Terrore, in cui i leader sovietici si accusavano di delitti e reati contro il socialismo che non avevano commesso.

Non si limitò a bollare von Hayek come un “ultrareazionario”. La stessa risolutezza usò nei confronti del suo maggiore ispiratore, quando chiese a un redattore come Felice Balbo: «Come può venirvi in mente di tradurre un reazionario antidiluviano come von Mises?».

E allegò un ritaglio tratto da The Economist  del 31 dicembre 1949 con la recensione sotto il titolo Fabulous Survival.

Ancora più pungente fu verso Werner Stark: «Un imbecille oltre che convertito al cattolicesimo». Eppure Keynes lo aveva fatto collaborare, come fece con lui, al The Economic Journal e gli aveva affidato la cura delle opere di J. Bentham.

In realtà Sraffa non accettava una critica munita di documentazione sui danni che l’economia pianificata, su cui si fondava il comunismo, poteva apportare non solo al libero mercato, ma alla stessa società, fino a comprometterne gli spazi di libertà di ogni cittadino.

A leggere le sue Lettere editoriali 1947-1974, pubblicate con molta cura da Tommaso Munari dello stesso Einaudi, si sente il tono ora difensivo ora aggressivo proprio di un intellettuale di sinistra negli anni della guerra fredda.

Lo spettacolo devastante del nazifascismo che si era abbattuto sull’Europa rese possibile, e giustificò l’alleanza per contrastarlo con uno stato come quello sovietico.

Rispetto a Putin non era meno dispotico e malthusiano quello di Hitler nel negare legalità e spazi operativi alle opposizioni e in generale nel rispettare gli stessi diritti fondamentali delle popolazioni governate. Si tratta dell’eredità di una macchina di potere che per oltre mezzo secolo si è chiamata comunismo.

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