- Due dipendenti di due società tedesche avevano deciso di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro. Tale decisione veniva contestata dai datori che nel primo caso si determinavano ad applicare prima un provvedimento di ammonimento formale e poi di sospensione dalle funzioni lavorative.
- Nel caso di MJ, davanti al suo rifiuto di togliere il velo sul luogo di lavoro, il datore, dopo averla invitata a tornare a casa, le ha nuovamente chiesto di presentarsi senza segni che esprimessero qualsiasi convinzione religiosa, politica o filosofica.
- Una recente sentenza della corte di Giustizia dell’Unione europea, resa pubblica il 15 luglio, ha sancito che è possibile per un datore di lavoro vietare ai suoi dipendenti di indossare qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose.
La politicizzazione della religione è un fenomeno che riguarda diversi paesi nel mondo e che può portare a esiti anche apertamente in conflitto con il sistema di tutela dei diritti individuali e collettivi, essenziale nelle democrazie liberali. Negli ultimi giorni Domani ha raccontato la storia di Ikram Nazih, la studentessa italo-marocchina condannata in Marocco a 3 anni di carcere per oltraggio all’islam. I conflitti sulla religione si moltiplicano quotidianamente in numerosi paesi. È questo, ad esempio, il caso della Germania relativo a IX e MJ, dipendenti di due società tedesche (la “Wabe eV” e la “Mh Muller Handels GmbH”) in qualità, l’una, di educatrice specializzata e l’altra di consulente di vendita e cassiera.
Entrambe avevano deciso di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro. Tale decisione veniva contestata dai datori che nel caso di IX si determinavano ad applicare prima un provvedimento di ammonimento formale e poi di sospensione dalle funzioni lavorative. Nel caso di MJ, davanti al suo rifiuto di togliere il velo sul luogo di lavoro, il datore, dopo averla invitata a tornare a casa, le ha nuovamente chiesto di presentarsi senza segni che esprimessero qualsiasi convinzione religiosa, politica o filosofica.
Tali richieste erano dettate dalla necessità di aderire a una politica di neutralità perseguita nei confronti di genitori, bambini e clienti in generale. Una recente sentenza della corte di Giustizia dell’Unione europea, resa pubblica il 15 luglio, ha sancito che è possibile per un datore di lavoro vietare ai suoi dipendenti di indossare qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Tale decisione deve essere tuttavia giustificata da una reale esigenza. Inoltre, secondo i giudici, le corti nazionali possono anche tener conto dello specifico contesto dello stato membro dell’Unione e, nello specifico, delle norme nazionali più favorevoli e relative alla tutela della libertà di religione.
La critica turca
In tal senso, nel ragionamento della corte del Lussemburgo, la volontà di un datore di lavoro di adottare una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere ritenuta una finalità legittima, ma deve costituire un’esigenza reale dell’impresa, quale, ad esempio, la prevenzione dei conflitti sociali o la presentazione del datore di lavoro in modo neutrale nei confronti dei clienti. Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu non si è lasciato sfuggire l’occasione per sferrare un attacco contro le istituzioni dell’Unione affermando che «vietare il velo islamico o più in generale qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose è una chiara violazione delle libertà religiose».
Tale sentenza, quindi, sarebbe quindi una manifestazione di «intolleranza verso i musulmani» e non avrebbe altro effetto se non quello di aggravare «i pregiudizi contro le donne musulmane in Europa». Secondo Cavusoglu «questa situazione ha un impatto molto negativo sulle donne musulmane escludendole dalla sfera socio-economica. Non si può negare che questa tendenza sia pericolosa e mostri che dal passato non si è imparato nulla». Sulle stesse frequenze sembrano sintonizzarsi le dichiarazioni dell’UcoiI (Unione delle comunità islamiche in Italia) che, mediante un comunicato, ha chiesto di rivedere la sentenza. Per la vicepresidente dell’UcoiI, Nadia Bouzekri, tale decisione rappresenterebbe addirittura «un altro passo verso l’istituzionalizzazione dell’islamofobia. Un atto che questa volta non si mostra sotto forma di riconoscibili manifestazioni di hater dietro una tastiera, ma con il volto più presentabile delle istituzioni comunitarie».
Queste due reazioni, sicuramente sproporzionate rispetto all’effettivo impatto della sentenza (basta pensare all’ampio margine che viene garantito ai contesti nazionali), ci dicono molto della partita che si gioca oggi nel mondo sul ruolo della religione nella sfera pubblica. Da una parte ci sono le solite grandi ambizioni di Erdogan rispetto al monopolio della rappresentazione delle istanze dei fedeli musulmani in Europa e nel mondo unite al populismo religioso che rappresenta parte integrante delle sue politiche. Dall’altra, probabilmente, una valutazione troppo affrettata di quello che sarà il reale impatto della decisione della Corte. La partita sul ruolo della religione nella sfera pubblica riguarda tutte le istituzioni. Sarà bene che si organizzino per tempo.
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