È una specie di blocco unico tra spalle e testa. Crea il cosiddetto “effetto scudo” per vincere la resistenza dell’aria. La federazione internazionale ha espresso delle perplessità. Nell’ansia della fretta con cui la società dell’usa e getta consuma anche le prestazioni sportive, paradossalmente, la velocità sempre più alta di atleti sempre più forti è un invito a rallentare, a scoprire sé stessi per meglio riconoscersi negli altri
Gli atleti corrono veloci in una società che va di fretta. Il modello di gestione dello sport moderno non si sottrae alle logiche del consumismo e si alimenta con voracità di risultati da usare e gettare a ciclo continuo. Calendari agonistici sempre più fitti, ritmo serrato, inflazione di titoli, prestazioni ridotte a sequenze di numeri asettici, scorrono come un fiume in piena e contrastano con l’impegno dei protagonisti che lo sport agonistico, lo riempiono di vita. E allora ci vengono in soccorso due immagini della classica corsa in linea del ciclismo professionistico, la Milano-Sanremo, due fermoimmagine come appigli per non lasciarsi inghiottire dai flutti.
Due foto come anse dove riprendersi dall’impeto della corrente e fermarsi a pensare: l’arrivo al fotofinish e il selfie gioioso dei tre protagonisti del podio. La Milano-Sanremo detta anche “classicissima” o “classica di primavera” è la corsa di un giorno più importante del panorama internazionale e deve la sua fama alla lunghezza del tracciato. Sembrerebbe dunque una contraddizione un arrivo al fotofinish per una competizione di 288 km, invece.
L’ultima è stata vinta dal belga Philipsen alla media record di 46,112 km/h, la più veloce di sempre nei 107 anni di storia della corsa. Per aiutare a capire la prestazione anche chi il ciclismo lo segue poco, bastano alcuni dettagli. Durante le 6 ore, 14 minuti e 44 secondi di gara i corridori hanno attraversato luoghi in cui hanno superato abbondantemente i limiti di velocità del codice stradale. Nelle discese hanno toccato punte attorno ai 90 km/h. La salita del Poggio è stata superata ad oltre 39 km/h.
Gli ultimi mille metri che hanno portato all’arrivo in viale Roma, sono stati volati ad oltre 62 km/h. Tutto ciò non è però bastato a fare selezione. La corsa si è conclusa con uno sprint finale, maestoso, corretto, senza sbandamenti e con i corridori appaiati al traguardo.
Un soffio
Solo lo studio del fotofinish ha potuto dipanare quell’arrivo in volata, all’unisono trasformandolo in una classifica: al vincitore e al secondo arrivato, il neozelandese Matthews, viene attribuito lo stesso tempo ma l’immagine scattata sulla linea d’arrivo, immortala una luce tra le ruote dei due ciclisti. Così l’occhio può misurare ciò che i millesimi del cronometro non riescono a fare e il podio ha il suo unico numero uno.
Quel soffio che separa il primo arrivato dal secondo, impercettibile alla sensibilità umana se non fosse fermato dal fotogramma della tecnologia, agonisticamente parlando rappresenta un abisso. Se accettiamo che quell’abisso sia scavato da una frazione di tempo di cui la nostra sensibilità non avrebbe percezione, se non ci fosse un supporto tecnologico a consentirla, diventa molto difficile tracciare i confini tra progresso scientifico e agonismo moderno.
È questo un tema che si affaccia frequentemente sul palcoscenico delle grandi prestazioni e che si tende a liquidare evitando confronti e isolando i campioni nella propria epoca. Ci sono però evoluzioni tecnologiche che non hanno significato esclusivamente per la progressione dei record ma anche per la sicurezza nell’esecuzione del gesto atletico e lo svolgimento delle gare.
È su questo aspetto che ha puntato la Federazione Ciclistica Internazionale (UCI) per spiegare le perplessità relativamente al casco Aerohead 2.0, parecchio strano, molto appariscente e decisamente poco bello, usato dalla team Visma (tra cui il vincitore degli ultimi due Tour de France, Jonas Vingegaard) nella prova a cronometro della Tirreno-Adriatico. Un oggetto che si potrebbe collocare all’incrocio tra l’elmo che copriva testa e collo dei condottieri medievali e il casco panoramico degli astronauti, rivisto e modellato all’insegna non della sicurezza e nemmeno dell’estetica bensì dell’aerodinamica.
Una specie di blocco unico tra spalle e testa che crea il cosiddetto “effetto scudo” per vincere la resistenza dell’aria e “l’effetto pugno in un occhio” per i puristi delle due ruote. Il ciclismo che fino agli anni novanta ostentava conservatorismo al punto che il re delle volate, Mario Cipollini, ha dovuto pagare parecchie multe per aver infranto il regolamento (che vietava di indossare calzoncini che non fossero rigorosamente neri) ha dimostrato maggiore apertura negli ultimi due decenni; senza però mai trascurare un aspetto fondamentale per corridori che pedalano a velocità sempre maggiori, ovvero la sicurezza.
Sarebbe una leggerezza dimenticare che, se nel movimento professionistico i rischi sono ridotti al minimo, sia per la preparazione dei corridori sia per la cura dei dettagli organizzativi, lo stesso non si può dire per le altre categorie. No, non si può proprio dire e perciò è doveroso ricordare il caso di Giovanni Iannelli, promessa ciclistica che nel 2019, a 22 anni, durante un arrivo in volata di una gara Under 23, muore a 144 metri dal traguardo. Le transenne di protezione non ci sono e Giovanni si ferma, per sempre, contro un pilastro di mattoni.
Suo padre Carlo, il caso vuole, sia anche avvocato e da quel triste giorno ancora combatte, purtroppo inutilmente e in solitudine, per la celebrazione di un processo che accerti le responsabilità e imponga attenzione e rispetto per l’incolumità dei corridori di tutte le categorie. Sulla scia emotiva di questo caso, non l’unico purtroppo, qualsiasi decisione tecnica (in merito gli accessori come ai tracciati) sia dettata dalla necessità di privilegiare la sicurezza, risultasse anche un eccesso di prudenza, sarebbe e sarà sempre una decisione giusta. Con buona pace per il casco effetto scudo e tutti i suoi studi nella galleria del vento.
La parola insieme
Dopo la pandemia il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) ha modificato il motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più in alto, più forte) aggiungendo la parola communiter (insieme): un modo per esprimere ancora più esplicitamente, a chi non l’avesse capito in oltre 120 anni di esistenza dello sport moderno, che l’agonismo è solo una delle sue tante dimensioni e ha l’obiettivo di spingere le persone a dare il meglio di sé per stare meglio con gli altri; un’esperienza di crescita personale e di progresso sociale ispirata dai valori di collaborazione e solidarietà per vincere sfide comuni.
Perciò il secondo fotogramma, il secondo appiglio a cui aggrapparsi per non farsi trascinare dal fiume impetuoso di risultati senza un’anima, la seconda occasione per fermarsi a pensare, il selfie sul podio della Milano-San Remo dei tre corridori abbracciati e sorridenti che si sono sfidati per quasi 300km fino all’ultimo millimetro, è una visione che si stampa sul cuore.
Un’immagine come un riflesso di quella che, più o meno nello stesso momento, arrivava dall’altra parte del mondo, dai campi di tennis del torneo Indian Wells, con Sinner e Alcaraz che si sorridono dopo scambi entusiasmanti: la fotografia di due giocatori felici che fermano l’attimo, insieme, e lo scrivono nella consapevolezza di esprimersi in maniera autentica, facendo bene ciò che amano.
Nell’ansia della fretta con cui la società dell’usa e getta consuma anche le prestazioni sportive, paradossalmente, la velocità sempre più alta di atleti sempre più forti è un invito a rallentare, a scoprire sé stessi per meglio riconoscersi negli altri.
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