Uno spot pubblicitario della Apple mostra la contraddizione fra libertà e oppressione, fra prigionieri e uomini liberi. Nel breve racconto della pubblicità Fabrizio Sinisi vede un racconto della moderna società occidentale: la distopia orwelliana è realtà
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Un gruppo di uomini percorre uno stretto corridoio simile a un lungo tubo. Tutti maschi; quasi tutti calvi; indossano una divisa-pigiama e procedono a passo di marcia fino a una grande sala. A esasperare il senso di oppressione, qualcuno indossa persino un boccaglio, a segnalarci che, lì dentro, l’aria è pesante e malsana. Oggi ci sembrerebbero i detenuti di un lager; ma nel 1984 – l’anno in cui stanno camminando – è più facile che li si identifichi come operai di una qualche plumbea tecnoindustria.
Tutto è buio, livido, rischiarato solo da pochi neon. Gli operai vengono fatti sedere davanti a uno schermo dove il faccione di un uomo di mezza età proclama una roboante dichiarazione: «Oggi, noi celebriamo il primo glorioso anniversario delle Direttive sulla Purificazione dell’Informazione. Noi abbiamo creato, per la prima volta in tutta la storia, un paradiso di pura ideologia. Dove ciascun lavoratore può realizzarsi al sicuro da invasioni destabilizzanti di verità contraddittorie. La nostra Unificazione dei Pensieri è un’arma più potente di qualsiasi flotta o armata sulla terra. Noi siamo un popolo, con una volontà, una risoluzione, una causa. I nostri nemici dovranno parlare a sé stessi fino alla morte e noi li sotterreremo con la loro stessa confusione».
A questo punto, lungo il corridoio appare una donna: giovane, bella, attraente. Indossa una canottiera bianca e dei calzoncini rossi, unico lampo di colore in questo mondo asettico. Unico essere femminile in questo infernale paesaggio monosessuato, corre inseguita da una truppa di guardie armate. Irrompe La donna nella sala dove gli operai sono radunati e, con un movimento olimpico, lancia un martello contro lo schermo. «Noi vinceremo!» – urla il dittatore proprio nel momento in cui il martello lo fa esplodere con un lampo accecante. I lavoratori-schiavi spalancano la bocca sbigottiti mentre dilaga una luce finalmente bianca e sullo schermo compare una scritta: ON JANUARY 24TH, APPLE COMPUTER WILL INTRODUCE MACINTOSH. AND YOU’LL SEE WHY 1984 WON’T BE LIKE “1984”. Il riferimento è, ovviamente, alla già popolarissima distopia totalitaria di George Orwell pubblicata nel 1949. Subito dopo affiora il logo: la mela morsicata.
Questo video, che chiunque può vedere su YouTube, è lo spot per Apple che Ridley Scott girò per il Super Bowl del 22 gennaio 1984: una pietra miliare della cinematografia pubblicitaria. Non verrà mai più rimandato in onda: come tutte le rivelazioni che si rispettino, accadde quella sera e poi mai più. Va in onda solo quella sera del 22 gennaio 1984, ed è subito mitologia. Steve Jobs, allora capo del marketing, dichiara: «Ai suoi clienti Apple si presenta oggi come l’unica forza in grado di garantire la libertà futura».
Difficile, certo, immaginare qualcosa che somigli a una parabola fondativa più di questo spot. È una cosmogonia mitica: in una società-alveare che richiama, ovviamente, lo squallore plumbeo e impiegatizio dell’Unione sovietica, irrompe il più erotico dei rivoluzionari: l’individuo-mela che libera il mondo del lavoro dall’incubo orwelliano del Controllo. Tutto lo spot è costruito nel segno della contraddizione polare: i prigionieri sono uomini asessuati e la liberatrice, invece, una donna attraente; i prigionieri sono tanti e lei è sola; i prigionieri sono dei lavoratori meccanici e lei è una sportivissima ginnasta; i prigionieri sono in bianco e nero e lei è colorata; i prigionieri sono prigionieri, e lei – solo lei – è libera. Il Prometeo di Apple biforca la storia dal suo apparente, fatale binario unico di oppressione e cupezza. Nell’inferno del lavoro di serie, Apple introduce la libertà, la gioia, l’eros, tutto il colorato armamentario provvidenziale americano, insomma la vita: l’individuo singolo che, con le sue sole forze, spezza la cupa distopia dello Stato e libera per sempre il mondo dal pericolo sovietico. C’è qualcosa di messianico in questa favola per adulti e piccini, che non è solo l’arrivo di una nuova macchina capace di rivoluzionare il mondo del lavoro; è la sanzione, più o meno definitiva, che la folle lotta teologica tra Ovest ed Est era finita, e che il Bene aveva trionfato. Di lì a poco il Muro sarebbe caduto, l’Unione Sovietica sarebbe collassata. Ma queste, si sa, sono solo conseguenze: i sismi sono sempre culturali e i crolli arrivano dopo, a conti già chiusi. Il comunismo non fu sconfitto nel 1989 o nel 1991: il comunismo fu sconfitto quel giorno, anzi quella sera del 22 gennaio 1984.
Ovviamente, l’allora quarantasettenne Ridley Scott non è da solo. Il regista, che nel 1984 ha appena finito di girare Blade Runner, è il pioniere, fra i tanti, di una formidabile operazione culturale come poche volte si è vista in azione nella storia. Come nei fantasy a sfondo medievale, quando arriva la cavalleria a svoltare una situazione a proprio vantaggio guadagnando ai buoni la vittoria finale, così nella lotta tra capitalismo e socialismo è una milizia speciale quella che entra in campo all’inizio degli anni Ottanta. Stavolta però non è composta da soldati o scienziati, ma da quelli che Mark Fisher chiamava “gli ingegneri libidici”: una milizia di designer, proprietari di marchi, agenzie pubblicitarie, direttori artistici, grafici, fotografi, product designer, retail designer, marketing strategist, architetti, stilisti, ricercatori, copywriters, musicisti, scrittori e artisti vari, un nuovo avanzatissimo esercito di tecnici del linguaggio pronti a elaborare nuove tecnologie del desiderio con un solo unanime obiettivo: guadagnare al capitalismo il monopolio sull’immaginario. Questa straordinaria armata culturale si pone lo scopo, più o meno consapevole, di produrre una narrazione che dimostri al mondo intero che tutto ciò che è desiderabile, erotico, liberatorio, gioioso e vitale avviene sotto il regno del Capitale; mentre, di conseguenza, tutto ciò che sta dall’altra parte – qualsiasi cosa sia l’altra parte – è debole, frigido, indesiderabile. È letteralmente impossibile pensare la vittoria del thatcherismo in Europa senza l’apporto decisivo di questa moltitudine di operatori culturali, al punto che molti di loro potranno, a ragione, considerarla una loro vittoria – una vittoria culturale e narrativa che precede la vittoria politica. È qui, da questa separazione originale, che nascono le galassie dell’underground, della controcultura, la religione dell’“alternativo”; è qui, nel momento in cui perde la battaglia sul Desiderabile, che nasce l’estetica perdente delle sinistre. Bisognerebbe ricordarlo spesso a chi, oggi si lamenta dell’irrilevanza delle tecnologie umanistiche: Ridley Scott ha contribuito alla sconfitta del socialismo non meno di quanto abbia fatto Ronald Reagan o Milton Friedman.
Oggi, a distanza di quarant’anni, l’ingegneria culturale del capitalismo non solo continua a prosperare, ma possiamo dire che è il suo settore di maggior successo: il capitalismo oggi mostra il suo fallimento su tutti i livelli – industriale, economico, etico, sociale, ambientale – eccetto che su quello culturale, dove il suo modello continua a prosperare, al punto che oggi – nel suo momento di massima prossimità al collasso – ci risulta impensabile ogni sua alternativa. Quali esperienze di gioia, di piacere, di libertà, di eccitazione e di sogno ci sono rimaste fuori dalla logica del consumo? Questa, forse, dovrebbe essere la priorità degli “artisti di sinistra”: costruire un teatro del desiderio che non coincida sempre e solo con quello del Mercato.
George Orwell ha scritto 1984 come una distopia che metteva insieme la Germania hitleriana e la Russia stalinista: ecco cosa diventeremo, si diceva, se vinceranno loro. Oggi quel romanzo non è più la distopia di quel mondo, ma del nostro. Se capito in centro città alle sette di sera, io li vedo: gli impiegati, tutti insieme, a reggimenti, con lo sguardo alienato da una giornata di meeting e di power-point e di folle manutenzione burocratica, mentre si schiacciano nella metro dell’esodo serale. Silenziosi, antierotici, distrutti.
Hanno guadagnato quel che oggi basta poco più che a sopravvivere. Anche loro, come gli operai dello spot Apple, tengono gli occhi fissi su uno schermo. E anche qui, al termine della visione, compare il logo della mela morsicata. Ma nessun Prometeo in canottiera arriva a spezzare l’incanto. Ora lo sappiamo: è stato promesso qualcosa che non è mai avvenuto. Questo capitalismo, al netto degli straordinari successi ottenuti dai suoi ingegneri libidici, ha finito col diventare paurosamente simile alla distopia che, quella sera del 1984, ci annunciava di avere sconfitto.
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