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La rivoluzione della Resistenza consegna all’Italia del dopoguerra non un semplice legato di principi morali e di generiche idealità politiche, ma un’eredità di principi giuridici.
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Gli ordini giuridici partigiani, per la prima volta nella storia italiana, rendono orizzontale la verticale del potere sovrano e mettono sottosopra l’alto e il basso della società facendo coincidere sovranità e cittadinanza.
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Il testo fa parte del numero speciale di Dopodomani dedicato al 25 aprile, in edicola e in digitale da sabato 22 aprile.
La Resistenza è una rivoluzione. I fucili partigiani instaurano ordini giuridici radicalmente nuovi nelle aree che controllano, a cominciare dalle zone libere e dalle repubbliche. Le bande adottano atti normativi, amministrativi e giurisdizionali che disciplinano i diversi aspetti del vivere insieme per mettere al riparo le persone dai pericoli determinati dal vuoto di sovranità spalancato dall’8 settembre e dalla violenza imprevedibile e anomica dei nazifascisti.
E, pur con i vincoli derivanti dalla situazione militare, chiamano gli abitanti a partecipare al governo della cosa pubblica impegnandosi a rendere le collettività locali comunità di eguali che solidalmente affrontano il presente e costruiscono il futuro.
Gli ordini giuridici partigiani, vero inizio della stagione costituente, realizzano così i principi dell’autonomia, della solidarietà, della pari dignità sociale, della partecipazione, della libertà e dell’eguaglianza e, per la prima volta nella storia italiana, rendono orizzontale la verticale del potere sovrano e mettono sottosopra l’alto e il basso della società facendo coincidere sovranità e cittadinanza.
Solidarietà tra eguali
Questa nella Resistenza non è appartenenza identitaria a un suolo, a una lingua, a un sangue, a una tradizione, non è il recinto degli italiani di pura “razza ariana” vagheggiato dal fascismo. È invece solidarietà sovrana, cioè collaborazione orizzontale tra persone che hanno pari dignità e che vivono, ognuna con la propria insopprimibile unicità, la responsabilità di un destino comune.
È solidale condivisione e attuazione di un progetto di libertà e di giustizia da parte di una moltitudine che è plurale, come entità plurali sono le bande, nelle quali combattono persone di varia estrazione politica e di diversa provenienza geografica: italiani, inglesi, francesi, tedeschi, jugoslavi, russi, neozelandesi, polacchi, cechi, somali, etiopi.
La Resistenza è un epocale sottosopra che prende forza soprattutto dai desideri di cambiamento dei lavoratori, delle donne, dei giovani e che scuote gli assetti sociali, le mentalità collettive e le abitudini individuali e accoglie e struttura quei desideri attraverso i valori e le pratiche del protagonismo e della solidarietà.
Il protagonismo degli operai che scioperano a partire dal marzo del 1943, dei braccianti e dei mezzadri che nelle campagne si battono contro gli ammassi e le requisizioni nazifascisti e per salari e ripartizioni più giusti, dei “cafoni” che tra il 1943 e il 1945 accendono nelle campagne del sud i fuochi di rivolta delle repubbliche contadine. Il protagonismo di chi prende le armi per sostituire la propria coscienza sovrana alle rovine dello stato monarchico e alla ferocia dell’occupante tedesco e dei suoi collaboratori repubblichini.
La solidarietà di chi aiuta gli ebrei e i soldati alleati a nascondersi e di chi sostiene, anche solo con il proprio silenzio, che può costargli casa e vita, i partigiani che operano nella zona in cui vive. La solidarietà degli operai che scioperano, rischiando la deportazione, per impedire il licenziamento di propri compagni, che finirebbero al lavoro coatto in Germania.
La solidarietà tra eguali della Resistenza rompe con il passato dello stato liberale perché mette fine all’individualismo solitario e competitivo che è il presupposto esistenziale del pensare l’assetto economico della società come un dato oggettivo, che lo stato e le sue leggi possono semplicemente registrare. E rompe con il più recente passato del regime fascista, nel quale sono il vincolo individuale e verticale di obbedienza e la personale partecipazione al culto comune del littorio a trasfigurare l’io nel noi e a far esistere la comunità come nazione.
Protagonismo, solidarietà, pari dignità sociale, autonomia, partecipazione, libertà ed eguaglianza: è questo il crocevia di valori in cui convergono, nel dopoguerra, l’impegno e le attese di chi siede alla Costituente e guarda alla Resistenza come a una rivoluzione, ossia a una rottura storica e giuridica epocale, che impedisce di tornare indietro, a qualsiasi indietro.
Il processo Costituente
Giorgio Amendola lo dice alla Costituente con grande nettezza: «C’è stato in Italia, in questi ultimi anni, un grande rivolgimento politico e sociale, si è iniziato un grande processo rivoluzionario. Il nostro compito è di creare una Costituzione che permetta a questo processo rivoluzionario di svolgersi sul terreno della legalità democratica». Così come Aldo Moro: «Questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria e ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale».
Questo è il convincimento dei costituenti e a formarlo contribuisce quel protagonismo collettivo che viene dalla Resistenza e che continua ad animare le città e le campagne, nell’immediato dopoguerra luoghi di incandescenza sociale e di grandi mobilitazioni che diffondono ulteriormente i valori che la Resistenza ha fatto trionfare.
La Costituzione repubblicana è il risultato non solo degli accordi tra i partiti presenti in Costituente, ma di un più generale processo di produzione del diritto, che ha come grandi protagonisti i partiti, ma al quale partecipano con le loro mobilitazioni gli italiani. La Costituente non è una torre d’avorio in cui, isolati da ciò che accade intorno a loro, i rappresentanti delle diverse forze politiche tessono intese e lambiccano formulazioni linguistiche. Nel caso della Repubblica italiana, invece, come osserva Angelo Antonio Cervati, lo stato non preesiste alla Costituzione e questa non è un atto statale, ma un processo pubblico costitutivo della società e da questa realizzato.
Sono il protagonismo dei lavoratori e la loro voglia di contare a spingere i costituenti a fare dello stato lo strumento del pieno sviluppo della persona umana e dell’integrale realizzazione della sua dignità, che – come sottolinea Paolo Ridola – è “dignità sociale”, cioè dignità che non è possibile senza liberazione economica.
Sono quel protagonismo e quella voglia a indurre i costituenti a individuare nella potenza comunitaria e solidaristica del lavoro il fondamento della Repubblica e ad affidare a questa il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.
Sono sempre quel protagonismo e quella voglia all’origine della scelta di affidare al concorso dei cittadini, anche attraverso i partiti, la determinazione della politica nazionale e di rimettere loro, con il referendum abrogativo, pure dirette decisioni legislative.
La rivoluzione della Resistenza consegna all’Italia del dopoguerra non un semplice legato di principi morali e di generiche idealità politiche, ma un’eredità di principi giuridici (libertà, eguaglianza, pari dignità sociale, autonomia, solidarietà, partecipazione) che animano il grande protagonismo collettivo del dopo Liberazione e che i Costituenti accolgono e sistematizzano in quel grandioso progetto di liberazione e di emancipazione della persona umana che è la Costituzione repubblicana.
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