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Gianfranco Maris intuiva già allora i rischi impliciti in una politica della memoria limitata alla pur necessaria narrazione delle vittime, a partire da quando divengono tali, cioè da quando, dopo l’arresto, sono inermi nelle mani dell’oppressore.
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L’interesse prioritario per la condizione di vittima assoluta, propria della Shoah, ha fatto sì che nella percezione collettiva tutti i deportati fossero assimilati tra loro.
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Anche e soprattutto per questo è importante parlare oggi con maggiore impegno di deportazione politica, ovvero della deportazione di chi si è opposto, di chi ha detto no. Parlare di deportazione politica vuol dire ricostruire la storia di una cultura di opposizione.
Sicuramente oggi più di vent’anni fa, quando con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 è stato istituito il giorno della memoria nel 27 gennaio, data della liberazione di Auschwitz, ogni italiano sa delle deportazioni dal nostro paese e in Europa e dell’esistenza dei campi di concentramento in Germania e nelle terre occupate dai nazisti.
Gli incontri di ex-deportati coi giovani delle scuole, le visite organizzate ai campi di sterminio, alcune opere di ricostruzione storica hanno consentito di consolidare una percezione diffusa dell’orrore della persecuzione organizzata dal terzo Reich.
Sembra, tuttavia, che questa percezione non sia adeguatamente sostenuta dall’impegno verso la comprensione di quanto accaduto, nonostante la migliore storiografia di questi ultimi anni si sia spesa proprio in questa direzione.
Percezione collettiva
Sosteneva Gianfranco Maris, deportato a Mauthausen, allora presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex-deportati), intervenendo all’Università di Verona il 6 aprile 1995, che la memoria serve per determinare «le proprie scelte di condotta», solo se «collegata ai processi economici, giuridici, culturali, sociali e politici che quei fatti hanno preparato e determinato».
E affermava l’urgenza di trasformare la «memoria in conoscenza», dichiarando che le deportazioni dovevano essere collocate «nel quadro della cultura tedesca, così come strutturata dal rogo dei libri in poi, [...] nel quadro dei processi formativi delle scelte politiche, giuridiche, giurisdizionali, amministrative naziste, nel quadro della concezione della strategia di una guerra globale di annientamento».
Maris intuiva già allora i rischi impliciti in una politica della memoria limitata alla pur necessaria narrazione delle vittime, a partire da quando divengono tali, cioè da quando, dopo l’arresto, sono inermi nelle mani dell’oppressore, che mira ad annientarne dignità, identità, fino a negarne lo stesso diritto alla vita.
Tale condizione di vittima, che caratterizza tutti i deportati dopo l’arresto, è conseguenza di una scelta di vita per coloro che sono stati deportati per motivi politici, diventa invece assoluta per gli altri e soprattutto per la grande maggioranza degli ebrei in Europa, perseguitati e annientati solo per il fatto di essere nati ebrei.
L’interesse prioritario per la condizione di vittima assoluta, propria della Shoah, ha fatto sì che nella percezione collettiva tutti i deportati fossero assimilati tra loro. La pietra d’inciampo, usata anche per i deportati non ebrei, questo rappresenta.
Riportando soltanto luogo e data di nascita e luogo e data di morte e posta generalmente davanti all’abitazione privata, connota solo la condizione di vittima, al di qua del ruolo svolto dal deportato o dalla deportata nella società, dei suoi orientamenti politici e culturali, delle sue scelte di opposizione al regime al potere.
Sull’aura generica di sacralità che circonda il deportato come vittima ci troviamo, tuttavia, quasi tutti d’accordo, senza problematizzare, senza indagare, senza accertare le dinamiche storiche, fino al punto paradossale che abbiamo visto esponenti politici della destra di ascendenza neo-fascista riconoscere a un tempo il ruolo di «grande statista» di Benito Mussolini, corresponsabile delle deportazioni di massa, e visitare commossi il Memoriale della Shoah di Yad Vashem e il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
Anche per questo credo che oggi si debba fare un passo avanti. Un fenomeno così drammatico per la storia dell’Europa e dell’umanità intera richiede l’impegno di intenderlo fino in fondo. L’indicibile non è infatti incomprensibile.
Indagare le motivazioni
È nostro dovere fare il possibile per ricostruire le ragioni storiche di quanto è avvenuto, tanto più se vogliamo rendere in qualche modo attiva la proposizione finale della legge del 2000, «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Per fare questo occorre comprendere.
E per comprendere diventa indispensabile una riflessione tanto sui sistemi di potere fascista e nazista, quanto sulla storia degli oppositori politici. Ciò in accordo con quanto scrisse Primo Levi nel testo introduttivo Al visitatore di quello che dalla fine degli anni Settanta fu a lungo il Memoriale italiano ad Auschwitz, che «dai primi incendi delle Camere di Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto».
Questo nesso si definisce innanzitutto nella ricostruzione dell’impegno politico e culturale di coloro che da subito intesero e contrastarono i totalitarismi al potere.
Anche e soprattutto per questo è importante parlare oggi con maggiore impegno di deportazione politica, ovvero della deportazione di chi si è opposto, di chi ha detto no.
Parlare di deportazione politica e di deportati per ragioni politiche vuol dire infatti ricostruire la storia di una cultura di opposizione che, maturata nel socialismo, nel liberalismo e nel cattolicesimo popolare dell’Italia pre-fascista, si è consolidata nelle esperienze della guerra di Spagna contro i nazionalismi europei, nella cultura dei fuoriusciti e nell’opposizione interna ai regimi fascista e nazista, influenzando vari strati della popolazione fino agli scioperanti solidali coi compagni di fabbrica o di lavoro durante gli scioperi del 1943 e del 1944 e ai giovani militari che dopo l’8 settembre 1943 si assunsero il compito non facile di divenire disertori.
Parlare di deportazione politica significa dunque fare i conti con la nostra storia, fondare una memoria autocritica, che non si limiti a commemorare le vittime di una tragedia senza uguali nella storia d’Europa, ma si proponga di indagarne le ragioni.
I deportati per motivi politici sono tanti in tutta Europa, ma per l’Italia in particolare sono l’elemento caratterizzante delle deportazioni tra il 1943 e il 1945. Ai circa 8mila ebrei deportati dall’Italia si affiancano infatti gli oltre 23mila deportati politici, censiti dai volumi intitolati Il libro dei deportati, a cura di Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia (Mursia, 2009-2015), cifra alla quale vanno aggiunti i deportati politici nei lager italiani di Fossoli, Bolzano e della Risiera di San Sabba. Né è ancora stata prestata la dovuta attenzione ai circa 600mila internati militari, che hanno detto no all’arruolamento nella Repubblica sociale di Mussolini.
Nello studio delle biografie di tutti costoro il centro dell’interesse dovrà necessariamente spostarsi dall’esperienza della deportazione, sulla quale molto è stato detto e scritto, alle vicende che l’hanno preceduta, a partire dalle motivazioni dell’arresto, spesso non indagate, andando a ritroso a quelle che sono state le vicende che hanno portato alla decisione di contrastare i regimi totalitari al potere.
Si riscopre, solo rimanendo in Italia, un universo di uomini e donne politicamente eterogeneo, dai monarchici badogliani, ai liberali, ai cattolici, agli azionisti, ai socialisti, ai comunisti, agli anarchici, fino al gran numero di coloro che non politicamente orientati si sono schierati a fianco della Resistenza per ragioni meramente di solidarietà umana, di coloro che hanno deciso da che parte stare solo nell’emergenza di uno sciopero o di un’azione clandestina.
Le storie dei deportati politici costituiscono un’antologia esemplare di umanità impegnata, coerente e solidale. Ho recentemente studiato il caso di Anna Botto, maestra elementare di Vigevano profondamente cattolica, sempre attenta ai più deboli, inevitabilmente vicina alla Resistenza. Fu tradita, arrestata, deportata, morì nel campo di concentramento di Ravensbrück.
Alle riflessioni della giornata della memoria mancano molto queste narrazioni di quando gli uomini e le donne poi deportate erano ancora liberi di agire, di scegliere, di orientare la propria vita tra l’adesione alla cultura violenta e corrotta del regime fascista, una vile indifferenza, o una cosciente opposizione.
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