- Siamo ancora Genova. La pratichiamo tutti i giorni: il 2001 è l’anno del primo social media, e non è Zuckerberg a inventarlo, ma attivisti e hacker. Si chiama Indymedia.
- A Genova tutti fotografano e tutti filmano, ci sono mille occhi a riprendere gli abusi delle forze dell’ordine, anche se la polizia distrugge le apparecchiature. Genova è l’idea di internet come libertà. E in questo senso, è anche vero che non siamo più Genova: oggi i network sono in mano al capitalismo digitale.
- Il 2001 è figlio delle radio libere, di Radio Alice degli anni Settanta, è padre delle tv civiche e dei network. Ma anche di Big Tech, suo malgrado.
Il 2001 è l’anno del primo social media, e non è Mark Zuckerberg a inventarlo, ma gli attivisti e hacker di tutto il mondo. Si chiama Indymedia. A Genova tutti fotografano e tutti filmano, ci sono mille occhi a riprendere gli abusi delle forze dell’ordine, anche se la polizia distrugge le apparecchiature. Genova è l’idea di internet come libertà. E in questo senso, è anche vero che non siamo più Genova: oggi i network sono in mano al capitalismo digitale; se i social nascono in mano a chi si oppose al dominio delle corporation, oggi è in mano alle multinazionali che sono finiti. Il 2001 è figlio delle radio libere, di Radio Alice degli anni Settanta, è padre delle tv civiche e dei network. Ma anche di Big Tech, di Twitter, di Youtube e di Facebook, suo malgrado.
Informazione sotto attacco
«In una via laterale vedo un ragazzo, è stato messo faccia a terra, lo hanno ammanettato e ha il ginocchio di un poliziotto sulla schiena. Vado verso di lui, sto fotografando la scena, e allora i poliziotti vengono verso di me. Vogliono saltarmi addosso». Giacomo Scattolini quel 20 luglio 2001 ha 32 anni, e anche se allora come oggi sa fare l’informatico, all’epoca ha molti ideali e un paio di macchine fotografiche. Inizia scattando quel che succede nei Balcani; poi, da freelance, va a Genova. Lo accredita una rivista. Nei momenti in cui Carlo Giuliani viene ucciso, Scattolini sente solo lo sparo: è poco distante ma sta fotografando il ragazzo col torace schiacciato dal poliziotto. La scena è del tutto simile a quella di George Floyd molti anni dopo. «Ero consapevole di correre un rischio: se avevi fotografato, le forze dell’ordine ti correvano dietro per prenderti la macchina fotografica».
Era frequente? «Era sistematico. Ti davano la caccia, spaccavano le macchine fotografiche e picchiavano». Ad agosto 2001, un mese dopo il G8 di Genova, un primo censimento di fotogiornalisti e operatori video aggrediti dalle forte dell’ordine è una Spoon River dell’informazione: J.J. de Heer, cameraman freelance olandese, sta documentando una carica della polizia contro un gruppo di manifestanti pacifici ma i poliziotti fracassano lui e gli oggetti che ha con sé. Inutilmente esibisce la tessera stampa. Yannis Kontos viene manganellato e la polizia gli sottrae i suoi venti rullini. L’elenco è lungo, certifica che avere macchine fotografiche e telecamere, poter documentare gli abusi delle forze dell’ordine, è considerato dagli agenti come una ragione per assaltare; distruggere le immagini è il fine. Scattolini si salva perché «un tipo in borghese con la fascia tricolore mi dice: “Cerca di capire, sono nervosi”, e mentre il poliziotto esita ho tempo di scappare». Ma gira intorno al palazzo e si imbatte davanti a un collega imbrattato di sangue.
È Eligio Paoni, è stato picchiato a sangue dalle forze dell’ordine perché stava fotografando Carlo Giuliani a terra. «Vicino a me c’era un’autoambulanza», racconta Scattolini. «E allora busso e carichiamo su Paoni, che dice: “Andate su, hanno sparato a un ragazzo”». Paoni fa il suo mestiere negli attimi successivi al colpo su Giuliani, e nei minuti prima che una pietra venga spostata vicino al ragazzo; le forze dell’ordine gli saltano addosso, si accaniscono contro la sua mano che tiene stretta la Nikon, gliela strappano via. Quando si accorgono che ha anche la Leika, urlano: “Tira fuori quel rullino o te la facciamo vedere”. Lo trascinano di peso sul corpo di Giuliani. Delle due macchine non gli rimane nulla; il suo corpo è pieno di sangue.
La radio libera
«Stanno assaltando il Media Center di via Cesare Battisti a Genova. Stanno cercando di sfondare la porta dentro la quale ci siamo barricati. Siamo come topi in trappola. Non me ne vado dal mixer finché non mi trascinano via. È una scena cilena. Stiamo solo facendo informazione. Questo è uno sgombero in diretta. Questa polizia fascista sta entrando nella sede di una radio con i manganelli in mano».
Questa è la voce di radio Gap che trasmette in diretta mentre la polizia fa irruzione alle scuole Pertini e Pascoli - è l’assalto alla Diaz - nella notte del 21 luglio. «Genova mi ha fatta diventare adulta in modo violento» dice Francesca Clementoni, che era lì per radio Gap; di quei giorni parla a fatica e in quella città non riesce più a tornare. Cos’era radio Gap? Una rete di radio libere che si mettono insieme; “Gap” sta per “Global audio project” ma evoca i gruppi della resistenza. Clementoni quell’estate di vent’anni fa arriva da Bologna, che già negli anni Settanta brulica di radio pirata e di emittenti libere. È la città di Radio Alice. «Nel 2001 era l’unica che nell’etere aveva ben quattro realtà attive di radio comunitarie non mainstream. Io lavoravo a Radio Città 103, oggi lavoro a Radio Città Fujiko». Da Bologna c’erano queste due radio, che oggi sono fuse, Radio K Centrale, e poi «da nord a sud, come le elencavamo allora» nel network Gap c’erano radio Blackout di Torino, radio Onda d’Urto di Brescia e Milano, le romane radio Onda Rossa e agenzia Amisnet, da Cosenza radio Ciroma.
«Prendemmo ispirazione da un network di radio che si era formato in America per seguire i movimenti no global nei vari stati Usa. C’era fermento e nascevano anche da noi le connessioni fra le città. Era come un’onda», dice Clementoni. «Radio Gap ha fatto qualcosa di antico in modo avanguardistico: abbiamo ricostruito il ponte radio, che una volta si faceva con le antenne, però usando internet. Riuscimmo a fare lo streaming, usavamo le prime pionieristiche reti adsl per far andare la radio in rete in diretta». Oltre allo streaming, radio gap sperimentò le chat: «Il sistema irc ci garantiva di poterci scambiare idee e contenuti in chat». Oggi pare ovvio ma «all’epoca era roba da smanettoni e piccole avanguardie». Il network, lo streaming, le chat.
La violenza mainstream
Ma la vera novità erano anche i contenuti: «I media mainstream raccontavano le polemiche e le violenze, non i contenuti delle proteste. Eppure chi voleva un altro tipo di globalizzazione aveva organizzato convegni interessanti con personaggi di alto profilo» dice Clementoni. Per raccontarli, servivano le radio libere. Il servizio del tg1 di pranzo del 21 luglio parla di «teppisti» (il termine è ripetuto con insistenza), di «blocco nero, violenti e anarchici», la polizia non attacca ma «reagisce» e «agisce in modo molto intelligente».
Il racconto mainstream è concentrato sulle violenze dei «black bloc»; le ragioni dei manifestanti finiscono silenziate. Il tg 2 di cena dello stesso giorno accenna ai «pacifisti intrappolati» ma è tutto concentrato sui «contestatori anarchici, strade devastate, manifestanti violenti, tute nere che si mescolano come camaleonti».
Il 22 luglio le due reti sono costrette a render conto dell’assalto alla Diaz ma si parla di «battaglia», non di attacco a persone inermi, e vengono ribadite la versione del ministro dell’Interno Scajola - la «connivenza del social forum con i violenti» - e della polizia - «nella scuola c’erano le molotov».
La tendenza ad appiattire la narrazione della contestazione tutta sul registro della violenza non inizia nel 2001 né finisce lì. «I dimostranti scagliano sassi e oggetti», scrive il Corriere il 1 luglio 1960, il giorno dopo la manifestazione di sindacati e antifascisti a Genova. I termini più usati all’epoca sono «folla accaldata» sul Giorno, «gruppi di scalmanati» sul Corriere, che ricorre di frequente anche a «estremisti», «violenti», «facinorosi», «i tumultuanti», «la schiera dei violenti». Una panoramica sui linguaggi che è possibile rispolverare attraverso il saggio di Mario Isnenghi ne La stampa italiana nel neocapitalismo (Laterza, 1976). Dopo il G8 di Genova, oltre dieci anni dopo, lo stesso appiattimento su «bombe carta, insulti, caos» è usato dai quotidiani mainstream per le proteste anti austerity in Grecia o quelle no Tav in Italia.
«Sii il media»
«Don’t hate the media. Be the media». Non odiate i media, siate i media: è lo slogan di Indymedia, il social network prima dei social. All’epoca del G8 deve ancora nascere YouTube; Facebook e gli altri sono ancora lontani. L’idea di smartphone non c’è, chi protesta gira ancora coi Nokia 3310; gli sms costano, le linee si intasano presto. Ma esiste internet, e sembra ancora una prateria libera.
Indymedia debutta nell’autunno 1999 a Seattle. Lì devono incontrarsi i delegati della World Trade Organization, e lì gli attivisti no global si preparano a sfilare in segno di protesta. I mediattivisti decidono che bisogna raccontare la manifestazione e le sue ragioni, dal basso, in modo partecipativo: «La rivoluzione non verrà certo trasmessa in tv dai media corporativi», dice uno di loro, Errol Maitland.
Il primo Independent Media Center apre i battenti a Seattle e le squadre di mediattivisti producono di tutto, dai video a uno stampato, The Blind Spot. Ma la novità più importante si chiama open publishing (pubblicazione aperta a tutti). L’espressione è battezzata all’epoca da Matthew Arnison, che la intende come «un processo di creazione della notizia trasparente per i lettori; possono contribuire alla storia e la vedono pubblicata immediatamente, filtrata il meno possibile. Le decisioni editoriali sono trasparenti e chiunque può parteciparvi; il software è libero».
Oggi siamo abituati, a “postare” sui social. Ma all’epoca i media mainstream erano a tutti gli effetti i gatekeeper dell’informazione: sceglievano cosa pubblicare, quali porzioni di realtà raccontare e come. Indymedia è il punto di rottura di questo sistema: «Ciascuno di noi è un testimone. Ciascuno è un giornalista. Ciascuno edita i contenuti», recita uno dei motti di Indy. L’open publishing è un cambio di prospettiva: non consumiamo informazione; la produciamo, tutti. Un giornalismo civico elevato a potenza, che nasce con e per internet. Una pratica, ma anche una filosofia e un’idea di società.
Il 2001 e un’idea di internet
«L’appropriazione delle capacità di connessione in rete da parte dei network sociali ha portato alla formazione di comunità online che hanno reinventato la società e hanno espanso l’attività di connessione ai network», scrive proprio nel 2001, in Galassia internet, il sociologo della comunicazione Manuel Castells. «Queste comunità hanno assunto i valori tecnologici della meritocrazia e hanno fatto proprio il credo hacker nei valori della libertà, della comunicazione orizzontale e della connessione interattiva, che hanno applicato alla loro vita sociale». È grazie agli hacker che Indymedia si diffonde in Europa: in Olanda, dove le reti tecno-attiviste sono radicate e ci sono figure come Geert Lovink, e pure in Spagna, nell’Italia degli hack meeting... È grazie agli hacker e agli attivisti; spesso le due figure coincidono.
«Io studiavo scienze politiche, mica informatica. Ma avevamo un modem condiviso al centro sociale» dice Bombo. Adesso lavora in Irlanda, vent’anni fa viveva a Milano e partecipò alla nascita di Indymedia; che sta contribuendo a riportare online con la “Time Machine”.
Bombo è il suo nickname; funzionava così, ed è così che tuttora ci si riconosce. «Ho iniziato al Deposito Bulk di Milano, era il 1998 e preparavamo l’hack meeting dell’anno dopo. I centri sociali erano la pedagogia di internet: lì la costruivamo, lì la imparavamo. Lì nacquero tutti quei progetti che erano i prodromi di Indymedia». In città come Milano e Bologna, tra gli hacker, nei centri sociali, ci si batte in quegli anni per il software libero, il copyleft, la cultura libera e la conoscenza aperta. Il primo “Linux Day” d’Italia è proprio nel 2001. Linux all’epoca era la nemesi di Microsoft, dei software proprietari, delle corporation. Era nato grazie a Richard Stallman, che negli anni Ottanta si dedicò alla creazione del software libero Gnu, a cui poi Linus Torvalds diede il cuore (il kernel Linux). Stallman ha teorizzato le quattro libertà del free software: studiare il programma, modificarlo, diffonderlo e migliorarlo. Significa dare l’informazione e quindi il potere agli utenti, oltre che alle aziende; sfuggire al monopolio di chi aveva, all’epoca, il controllo della macchina e delle leve economiche. Sempre nel 2001 il giurista Lawrence Lessig concepisce le licenze “creative commons”: una alternativa al copyright e alla proprietà intellettuale, e un inno alla “cultura libera” di cui Lessig è il teorico. L’idea è che tutti debbano poter creare, oltre che poter sapere. “L’informazione è potere, ma come tutti i poteri, c’è chi vuol tenerselo per sé”, scriverà sette anni dopo Aaron Swartz nel suo “Guerrilla Open Access Manifesto”. Ma nel 2001, quando era ancora adolescente, Swartz era già lì, con Lessig, a lavorare insieme alle licenze libere.
Indymedia a Genova
Prima del G8, c’è l’Ocse. Nel 2000 Bologna ospita il vertice, e pure il controvertice. Matteo Pasquinelli, che adesso insegna Teorie dei media in Germania, all’epoca propone di avviare il “processo”, e cioè di aprire un nodo italiano di Indymedia. Dai movimenti, dagli hack meeting, dagli hacklab, nasce così a giugno 2000 la costola italiana; l’apripista è Pasquinelli assieme a Void, l’occasione è il No Ocse di Bologna. Il metodo decisionale non è gerarchico ma funziona per consenso, anche se più sai fare più ti guadagni spazio. La colonna “newswire” di Indymedia Italia è un flusso continuo di contributi che provengono da chiunque voglia partecipare. Gli “speciali” sono frutto di una elaborazione collettiva. La rete cresce, in tutta Italia. A luglio 2001, una settimana prima del G8, la scuola Pascoli in via Cesare Battisti viene cablata e attrezzata a Media Center.
Arrivano nodi di Indymedia da tutto il mondo, il centro stampa raccoglie anche Radio Gap, la rivista Carta e altri. Nei giorni di Genova molte persone hanno con sé le prime telecamere e macchine fotografiche digitali. Tutti filmano tutto; la tecnologia diffusa nutre Indymedia e soprattutto si rivela cruciale per l’autodifesa collettiva. La notte del 21 luglio, la polizia fa irruzione alla Diaz, nelle due scuole Pertini e Pascoli.
Il giornalista di Indymedia UK Mark Covell viene pestato e ridotto in fin di vita dalla polizia. Che fa irruzione, spacca pc, prende hard disk sia del Media Center che degli avvocati del Genoa Legal Forum. Radio Gap racconta in diretta l’arrivo dei manganelli come Radio Alice quando irruppe la polizia nel ‘77. “L’irruzione al Media Center fu un colpo durissimo: l’informazione veniva attaccata e censurata in diretta” scrive Ilnonsubire nel libro appena uscito “Millennium bug. Una storia corale di Indymedia Italia” (Alegre). “Una quantità incredibile di polizia e carabinieri in tenuta antisommossa salivano la strada verso il Media Center battendo il manganello sugli scudi, rabbiosi e urlanti”. Durante l’irruzione, Eamonn si rifugia sul tetto e filma.
Se quelle immagini sono arrivate a tutti, è grazie a Indymedia; e pure i media mainstream - almeno alcuni - hanno dovuto prenderne atto. Come Enrico Mentana, che cancella il logo di Indy, ma usa il suo video della Diaz sul tg 5. È sempre grazie a uno di quei filmati, che i pm riescono a ricostruire che le molotov nella scuola le ha portate la polizia. «Sequestrammo il video e lo battezzammo Blue Sky perché permetteva di vedere un po’ di cielo chiaro», dirà poi il pm Enrico Zucca. Senza foto, racconti, filmati diffusi sarebbe tutta un’altra Storia. Le forze dell’ordine hanno continuato a cercarli anche dopo quelle giornate. «Dopo il G8 Indymedia distribuì mezz’ora di girato, “Aggiornamenti #1”, per denunciare gli abusi della polizia. Ma rimanevano ancora tante vhs da acquisire» dice Marco Trotta, mediattivista bolognese. «Parte di quel materiale si trovava a Bologna, al centro sociale Tpo, e le forze dell’ordine fecero una perquisizione, vennero e lo sequestrarono». Era il 2002 e ci furono operazioni simili, coordinate, anche in altre città. Anche per questo nacque poi “Supporto legale”: quei filmati potevano incastrare i manifestanti o fornire prove per scagionarli, perciò un gruppo di lavoro di Indymedia si dedicò ai processi.
L’irresistibile capitalismo
La versione di social media imbastita da Indymedia, che è nata come libertaria, è stata poi fagocitata e rimpiazzata da una versione proprietaria della rete: quella di social come Facebook, quella di Big Tech e della Silicon Valley. Il filo rosso che collega le due storie si trova anche nei personaggi: il mago dell’informatica Blaine Cook, per esempio, era in Indymedia e poi è finito a sviluppare Twitter. Anche Evan Hen-Shaw-Plath, ex Indymedia, ha contribuito a creare Twitter. Moxie Marlinspike ha creato Signal e ha fornito protocolli crittografati usati anche da WhatsApp e Facebook. La rete come rizoma, decentralizzata e senza gerarchie, anticipata già quarant’anni fa dai filosofi Gilles Deleuze e Felix Guattari, è finita agguantata dal capitalismo.
L’intellettuale Franco Berardi detto Bifo è stato partecipe, ispiratore, creatore di tutte le esperienze che vanno da Radio Alice negli anni Settanta alla mailing list Rekombinant nell’epoca di Indymedia fino alle esperienze di giornalismo civico e di media partecipativi che nacquero a ridosso di Indymedia, come la tv civica Orfeo Tv. Esperienze che si realizzavano a Bologna, città di Umberto Eco e della semiotica. «Già dai tempi di Radio Alice ci era chiaro ciò che a Genova e oggi è palese, e cioè che la società si sarebbe trasformata secondo le tendenze del semiocapitale, con il lavoro cognitivo alla base del processo produttivo» dice Bifo. «Il movimento no global rappresentò non solo una critica di massa del dogma liberista, ma anche l’organizzazione autonoma dei circuiti di produzione del sapere, della comunicazione e della tecnologia». Era la rete come potenza, come «intelligenza collettiva» e apertura di possibilità. Ma dopo Genova quei movimenti di liberazione furono costretti a un lungo purgatorio, secondo Berardi, che non vede ora vie d’uscita: «Dalla macchina della valorizzazione neoliberista non c’è modo di sfuggire, perché il capitalismo non conosce il limite. Lo introietta».
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