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Si è conclusa la Biennale Teatro di Venezia, diretta dal duo di registi italiani Ricci/Forte. Pochi di questi spettacoli gireranno in Italia, ma vale la pena descriverli perché danno un’immagine schietta della condizione umana nel terzo decennio del secolo ventunesimo.
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Gli spettacoli sono affollati di personaggi che non sanno darsi una rotta, velleitari, ambiziosi, inadeguati, incapaci di seguire un ideale, delusi dalla sproporzione fra scelte etiche e risultati pratici.
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Il teatro propone le sue vie di uscita in qualcosa di più radicale dell’empatia: la personificazione con gli altri, anche quando sono cattivi, e pochi esempi positivi, come i profughi e gli attivisti africani contro il caporalato.
Come faccio a coinvolgerti per farti leggere questo articolo? Vorrei parlare della bellissima Biennale Teatro appena conclusa a Venezia, diretta da Stefano Ricci e Gianni Forte, ma ho un problema: quasi tutti questi spettacoli non gireranno in Italia. Parlare di serie tv o di film è socievole, perché tutti possono vederli. Al confronto, raccontare uno spettacolo teatrale è un esercizio autistico. E d’altronde il teatro è così: difficile da stanare, minoritario, puntiforme. Allora, come faccio? Comincio dicendo dove si potranno recuperarne almeno alcuni.
Visibili in Italia
Purtroppo sono pochissimi. Se siete in zona, non perdete assolutamente Loco, del duo Belova e Iacobelli: a Andria, il 27 e 28 agosto, e a Parma il 20 e 21 dicembre. I Peeping Tom saranno a Bolzano il 16 luglio, con uno spettacolo che però non è quello che hanno presentato a Venezia: ma fossi in voi, andrei a vederli anche se mettessero in scena la lista della spesa. Anche Milo Rau proporrà uno spettacolo inedito, Grief & Beauty, dal 12 al 14 ottobre a Genova. Bene, il mio dovere di bravo giornalista l’ho fatto. Adesso, qualche impressione da spettatore.
Premier di sé stessi
Che cosa ci dicono, gli artisti della scena di questa Biennale, sulla condizione umana nel terzo decennio del secolo ventunesimo? Spicca in maniera clamorosa la difficoltà di dirigere la propria vita, di essere non dico sovrani, ma almeno presidenti del consiglio di sé stessi.
Ogni persona è una coalizione di partiti litigiosi, che coabitano in cagnesco e, anche quando trovano un compromesso, sono travolti da eventi micidiali troppo gravi. Così accade nel meraviglioso Triptych, del gruppo belga Peeping Tom, due ore di teatro-danza incantevoli: gli otto attori-ballerini, uomini e donne dalle prestazioni fisiche eccezionali, occupano stanze d’albergo, cabine di navi da crociera, ristoranti: sono vittime di omicidi inspiegabili, decapitazioni, agguati e inconvenienti bizzarri: cercano di amarsi nonostante tutto, tra un attacco epilettico, un tuono elettronico, uno sciame di vespe, un maremoto, un naufragio; stipano di cadaveri gli armadi, irrompono da una porta come se una raffica di vento li scaraventasse in scena. Sono vite che non si reggono in piedi.
Gli esseri umani di oggi sono creature sparpagliate, in preda a continue interferenze e sommovimenti ingestibili? Non riescono a darsi, se non una meta, almeno una rotta?
Qualcosa di simile lo comunica anche Una foresta di Olmo Missaglia: il regista trentenne ha proposto uno spettacolo che, tecnicamente, può essere definito un cabaret: le esperienze dei quattro sconosciuti che si perdono in un bosco non hanno uno sviluppo narrativo che dia senso a ciò che vivono, perché affrontano una pura addizione di “numeri” teatrali. Così la vita non è nient’altro che una somma di episodi.
Stress etico
Vivere è eticamente stressante (lo si vede anche dagli articoli che escono su questo giornale): l’esistenza ci chiede in continuazione di decidere come educare un figlio piccolo, come corteggiare senza essere sessisti, come diventare consumatori consapevoli, con quali desinenze scrivere una mail collettiva… Si capisce che ci sia gente che non ce la fa: è dura prendere una decisione epocale ogni mezz’ora; meglio rinunciare al libero arbitrio e delegarlo a un’istituzione, a un’autorità morale, a una guida che ci dica che cosa fare di noi: rivolgersi alle chiese vecchie e nuove; alle teorie complottistiche; al pensiero progressista o reazionario, purché strutturati in slogan che siano pratici come un’app. Solo che poi, come sempre, i risultati non corrispondono alle attese.
E anche fra ciò che si scolpisce su misura per sé stessi nelle tavole della legge e l’esperienza individuale concreta c’è uno scarto esistenziale doloroso: lo scopre Samira Elagoz, che riprende con la telecamera le fasi iniziali del suo percorso di transizione sessuale. Seek Bromance dura quattro ore, è un film documentario, interrotto da brevi monologhi della protagonista e regista, presente dal vivo sul palcoscenico.
Conosce in rete Cade Moga, un artista performer brasiliano transmaschile, ex ragazza, ex modella: anni prima, dal padre chirurgo si era fatto impiantare e poi togliere dal petto due protesi; ora ha due cicatrici sui capezzoli, e si inietta testosterone in corpo.
Samira Elagoz, biondina finlandese figlia di padre egiziano, va ad abitare per un po’ con Cade Moga a Los Angeles e Las Vegas, e comincia anche lei ad assumere ormoni. Il film è il resoconto di una relazione farmacopornopolitica (concetto postfoucaultiano coniato da Paul B. Preciado).
Alla fine, quando ormai si sono lasciati da mesi, tutti e due appaiono tristi, dubbiosi, emaciati, e sono molto onesti nel descrivere quanto sia difficile inventarsi personalmente questa forma esistenziale, oltre gli archetipi maschili e femminili, oltre le aspettative e le teorie queer.
Il mondo sono io
Se fosse lungo la metà, Seek Bromance avrebbe un grande potenziale divulgativo (da mostrare a chi non ha letto Preciado), varrebbe la pena di diffonderlo per la sua esemplarità sociologica.
Però, il vetero-devoto all’estetica che è in me non può fare a meno di notare certi nodi, che non riguardano solo l’opera di Elagoz, ma anche tutti i discorsi e le opere d’arte di questo tipo (visto come mi sto impegnando? Cerco di interessarvi ricavando considerazioni generali, anche se non riuscirete a vedere Seek Bromance).
Primo nodo: se hai una cosa importante da dire, non accontentarti della sua importanza, dilla meglio che puoi. E invece, la convinzione di parlare di temi cruciali fa trascurare a Elagoz la confezione formale della sua opera: invenzioni, ritmo, nerbo strutturale si squagliano perché c’è qualcosa di urgente da comunicare.
A parte qualche reminiscenza di Chelsea Girls di Andy Warhol nell’uso dello split screen, le trovate visuali di Elagoz sono acerbe, petulanti, verbose: ma, tanto, ciò che importa sono i contenuti.
Secondo nodo: se per caso ti ritrovi al centro di tutto, ciò non significa che puoi sostituirti a tutto. E invece, l’intensità personale con cui vivono certi temi conficca questi due artisti, Elagoz e Moga, nell’egotismo assoluto: il mondo per loro non esiste; esistono solo i problemi di identità sessuale dell’artista, per quattro ore di seguito (e d’altronde, la lunghezza abnorme è coerente con le loro premesse egocentricissime): ma siccome il tema è di moda, ecco che allora posso avere l’illusione che parlando di me io parli di tutto il mondo, perché la mia condizione è nell’occhio del ciclone culturale occidentale.
Chiedi ai classici
E dunque, gli individui e le collettività sono abbandonati all’angoscia etica, e si trovano a riconsiderare tutto da zero per impostare l’esistenza. Il teatro che rimedi propone? Che istruzioni dà per l’uso della vita?
A volte si rivolge ai classici, antichi o recenti, per recuperare qualche certezza, per far vedere che quest’epoca non è una mostruosità inedita: certi problemi sono stati già affrontati secoli fa, possiamo contare su esempi e paradigmi del passato, se non altro per suscitare discussioni.
L’Odissea è ancora in salute per illuminare le vicende di chi scappa dalle guerre di oggi e ritorna incautamente in patria per ricongiungersi al padre, al suo Laerte personale, e invece finisce incarcerata dal regime siriano, come è successo davvero a una delle attrici-testimoni di The Lingering Now, della regista brasiliana Christiane Jatahy (premiata con il Leone d’Oro).
Ed è in salute anche l’Orestea di Eschilo, che Milo Rau ha usato per mettere in scena, con artisti locali a Mosul, la questione tremendissima della riconciliazione fra vittime e aguzzini in Siria (in questo caso, alla Biennale si è visto il documentario sul suo Oreste in Mosul).
Per non parlare del Vangelo: nel commovente film di Rau, The New Gospel, si vede il terzo Gesù che muore a Matera, dopo quelli di Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson; questa volta è un attivista africano, che aizza contro il caporalato i raccoglitori di pomodori della Basilicata. Toh, un eroe positivo! L’unico di questa Biennale.
E poi ci sono i classici della letteratura, contemporanea e non. Per il suo magnifico Brevi interviste a uomini schifosi, Yana Ross ha attinto a David Foster Wallace.
È stato il più gladiatorio, il più performativo degli spettacoli visti qui: c’erano due pornoattori che scopavano davvero in scena, e un’attrice che portava alle labbra un frullato di pomodoro e merda, e un altro che, nelle vesti di un vecchio decrepito, si spalmava addosso le feci raccolte dal pannolone.
Il tutto in una commistione di immaginario western recitato in tedesco, musica country dal vivo e una grande perizia scenica; gli attori pronunciavano le parole di Foster Wallace compiendo atti faticosi o perversi, e in questo modo le potenziavano, evidenziando la terribile ambiguità dei discorsi umani, dei ragionamenti politici e morali: come nel famoso monologo del libro, in cui si arriva a dimostrare che la Shoa e gli stupri particolarmente efferati hanno degli aspetti positivi, perché aumentano la conoscenza che l’umanità ha di sé stessa. Brrr.
La cover della cronaca
Non ci si accontenta più degli attori che vagano su un palco a venti metri di distanza dal pubblico: vogliamo vederli da vicino, vogliamo scrutare il loro volto per verificare che effetto gli fanno le parole che dicono, come le patiscono: perciò è sempre più diffusa la presenza di una telecamera in scena che riprende gli attori in diretta e li proietta su uno schermo, ingigantendoli in primo piano.
È diventato ormai un linguaggio registico acquisito, che in questa Biennale si è visto in più di metà degli spettacoli. Penso sia un indizio anche della volontà degli artisti scenici di affacciarsi il più possibile, di varcare una soglia di prossimità col pubblico. A questo corrisponde anche un altro slancio: il desiderio di un’immersione più spericolata, più temeraria nel mondo.
È quello che ha fatto Milo Rau con La Reprise: ha messo in scena il banale e bestiale assassinio omofobico di Ihsane Jarfi, commesso in Belgio nel 2013. Gli attori ricostruiscono le circostanze e la scena del delitto. È una scelta controcorrente rispetto a quanto succede nella attuale vita collettiva, che commenta, non fa altro che commentare i fatti di cronaca: per tenerli a distanza.
Social, articoli, talk show: la violenza viene seppellita sotto una quantità di opinioni e giudizi di giornalisti, esperti, osservatori, lettori. I pareri che pullulano intorno ai fattacci hanno sostituito il coro della tragedia greca, ma invece di dare più rilievo ai misfatti, li offuscano sotto una quantità di opinioni soggettive.
A ben vedere, è un atteggiamento paranoide, rassicurante: si allontana da sé l’orrore spiegandolo, analizzandolo, fornendo interpretazioni e sentenze sommarie. Ecco allora che la via opposta è quella teatrale, cioè isterica, immedesimativa: non le basta l’empatia, è più radicale, vuole accogliere l’altro in sé, lo recita, lo replica minuziosamente, anche se è un assassino; non analizza ma impersona.
È una delle ragioni fondanti della sapienza teatrale: diventare gli altri con tutti sé stessi, non solo con il pensiero ma anche con il corpo, i gesti, l’andatura. E anche con la consapevolezza: Milo Rau è un artista davvero contemporaneo perché non si limita a fare finta, ma fa vedere che sta costruendo una finzione: delle sue opere fanno parte anche le cornici produttive (le audizioni degli attori, i provini, i trucchetti per fare una scazzottata che sembri vera).
I suoi attori-personaggi sono fondamentalisti del tempo presente: hanno assorbito talmente tanto la cronaca giornalistica che finiscono per mimarla. Lo spettacolo di Rau è una specie di cover (le versioni alternative di una canzone): una cover non musicale ma criminale, è l’esecuzione di un delitto suonata da un’altra band. Mi ha fatto male (un male benefico), come spettatore, vedere quelle brave persone degli attori rifare in scena i massacratori di un omicidio gratuito, accaduto davvero.
Ambiziosi e scontenti
A un classico della letteratura si è affidato il duo Belova e Iacobelli in Loco, un’ora di magia scenica pura. Immaginate due donne, brune e vestite di nero, ben visibili sul palco, che maneggiano insieme, con sincronia impeccabile, un burattino a grandezza naturale: è Popriščin, il protagonista delle Memorie di un pazzo di Gogol’.
Le due burattinaie, che muovono e destrutturano il pupazzo sotto gli occhi del pubblico, impersonano le forze da cui è agito Popriščin, l’oppressione sociale che subisce, la sua insurrezione folle e patetica, che non riesce ad accontentarsi del suo rango: è uno scrivano comunale ma si convince di essere il figlio del re di Spagna, che sposerà la figlia del capo ufficio.
La sproporzione fra ambizioni sbagliate e realtà, fra illusioni di successo e classe sociale, fra sogni di grandezza e grame possibilità di realizzarli è risuonata anche in altri spettacoli, come nel satirico Broke House di Caden Manson, dove si aspira a diventare influencer con milioni di follower, o star del cinema, o stilisti famosi, salvo poi essere sfrattati di casa.
A ben vedere, la stessa difficoltà origina l’atto unico di Deflorian e Tagliarini, Sovrimpressioni, recitato con il loro inconfondibile tocco, delicato e inesorabile. Un’attrice e un attore dialogano in camerino, mentre due truccatrici li preparano; devono impersonare Ginger e Fred.
Già nel film felliniano Mastroianni e Masina accettavano di essere il residuo senile di sé stessi; i personaggi di Deflorian e Tagliarini, dunque, sono il riverbero di un residuo, l’eco di un’eco, hanno la consapevolezza auto ironica di non poter aspirare a niente più di questo. Alla fine, a questo post Fred non resta che fare uno struggente assolo di ballo con una pianta in vaso, una kentia.
Come siamo messi
E quindi, tirando le somme, chi siamo per la Biennale di Ricci/Forte? Siamo soggetti interiormente sparpagliati, senza un obiettivo che non sia posticcio, o assurdo, o irrealizzabile. Siamo in balia di interferenze e dirottamenti continui, e di pressioni sociali schiaccianti, e di sogni troppo grandi.
Viviamo la sproporzione fra necessità e utopia, non riusciamo a praticare un ideale, non abbiamo la dignità di chi lotta per sopravvivere, come invece ci mostrano i profughi africani o mediorientali. Non crediamo più a nessuna parola, tranne a quella di chi ci spiattella la sua sofferenza o la sua cattiveria, purché siano reali e ostentate.
Siamo fondamentalisti dell’attualità che si illudono di trovare qualche appiglio culturalistico nel passato. Ci affidiamo a schemi esistenziali vecchi e nuovi, che però producono frustrazione, facendoci constatare quanto siamo inadeguati. Abbiamo paura di essere coerenti perché ciò che sosteniamo, se preso sul serio, produrrebbe contraddizioni catastrofiche. Che dite, vi riconoscete o no?
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