Molto prima di quest’èra in cui impazza lo show cooking e l’impiattamento è diventato una disciplina da seguire per soddisfare una fame visiva, l’estetica del cibo trova la sua forma più alta nell’arte. Pare siano stati gli antichi romani a introdurre l’espressione “mangiare con gli occhi”
Alzi la mano chi non ha esitato davanti alla vetrina di una pasticceria a guardare un babà ricco di panna e fragoline? O chi facendo zapping non si è fermato sul Masterchef di turno, catturato dalla geometria delle varie preparazioni?
Siamo più o meno tutti caduti nel tranello delle reazioni percettive che il cibo provoca. Oggi, l’imperativo categorico è che il cibo deve essere bello da vedere e quindi anche da mangiare.
Ma molto prima di quest’èra in cui impazza lo show cooking e l’impiattamento è diventato una disciplina da seguire per soddisfare una fame visiva, l’estetica del cibo trova la sua forma più alta nell’arte. Dalle pareti delle caverne alle tele di numerosissimi artisti, la rappresentazione del cibo costituisce l’espressione più eclatante di un concorso di sensi. Attraverso un climax di proporzioni, livelli e colori, l’opera è capace di uscire dai confini bidimensionali della tela per completarsi nell’osservatore e giungere così al pieno della fruizione.
Mangiare con gli occhi
Pare siano stati gli antichi romani a introdurre l’espressione “mangiare con gli occhi” quando, mangiando con gli occhi le pietanze offerte alle divinità durante i riti funerari, si innescava negli astanti l’acquolina in bocca. In realtà, il dialogo tra cibo e pittura crea una sorta di cortocircuito tra i sensi meglio conosciuto come sinestesia gustativa e olfattiva, un’interazione sensoriale dove la stimolazione di un senso ne provoca la reazione di un altro.
Fisiologicamente, infatti, i sistemi percettivi non sono isolati: a livello sottocorticale e della corteccia celebrale, i segnali provenienti dai ricettori sensoriali interagiscono, rendendo la percezione del gusto un cross-talk tra tutti e cinque i sensi. Il sapore di un cibo, allora, entrerà a far parte di un bagaglio personale che influenza la memoria. E su questo la petite madeleine proustiana fa scuola.
Secondo il neuroscienziato statunitense Gordon Shepherd, nei primati la ricerca del gusto è stato uno dei fattori determinanti nel processo di espansione cerebrale. Grazie a meccanismi ereditati dai nostri antenati, infatti, il colore del cibo è diventato uno dei principali elementi che permette di estrarre informazioni anche senza assaggiarlo.
Singolare è uno studio condotto dall’Università di Oxford. A un gruppo di persone, la stessa insalata è stata presentata in 3 modi diversi: scomposta, addensata al centro e disposta a rappresentare il dipinto di Vasilij Kandinskij Pittura 201. La maggior parte dei partecipanti, ignara che il piatto fosse ispirato ad un’opera d’arte, ha preferito la versione Kandinskij.
Il potere dei colori e delle Forme
Fu Johann Wolfgang Goethe a condurre le prime ricerche sul potere suggestivo dei colori. Lo scrittore tedesco, nella Teoria dei colori, illustra come le singole tonalità siano in grado di suscitare particolari stati d’animo. Secondo Goethe il colore svolge un’azione specifica sulla vista che fa da tramite per giungere all’anima. Conclusioni poi validate da indagini che hanno dimostrato che le associazioni psicologiche suscitate dai colori scaturiscano dal nostro patrimonio genetico e da consuetudini alimentari derivate dall’esperienza.
Interessanti, inoltre, gli studi Gestalt Psychology, che insistono sulla psicologia della forma. Questa corrente, partendo dal principio di associazione formulato dal filosofo David Hume, secondo il quale la mente, grazie all’esperienza, è in grado di stabilire relazioni fra idee, identifica le basi del comportamento nel modo in cui viene avvertita la realtà anziché per come essa è realmente. La vista permette di identificare alcune proprietà che cambiano man mano che cambia colore e forma non solo dell’alimento, ma anche del contesto. La desiderabilità, dunque, non dipende esclusivamente da una impressione sensoriale ma anche da un imprinting nervoso per cui l’uomo tende a percepire ciò che è stato abituato ad osservare. Uno schema interpretativo soggettivo, quindi, che risente delle propensioni innate e tra queste la Gestalt, riconosce nella legge della buona forma la tendenza insita in molti individui a preferire oggetti che abbiano una struttura semplice e armonica.
Cibo e arte
Da protagonista assoluto a rappresentante di uno status sociale, dal legame con il sacro a materiale espressivo della vita quotidiana, il cibo nell’arte è dunque capace di sedurre e farsi desiderare e il colore, le forme e il contesto costituiscono per il palato indizi preliminari su cui fare affidamento.
Si pensi ad esempio alla degustazione sensoriale che può provocare la visione della Canestra di frutta di Caravaggio, una natura morta dove il cibo non è accessorio ma protagonista della scena. La frutta si rivela contro il fondo chiaro, vive plasticamente, quasi tangibilmente, grazie ai rapporti fra luci e ombre, al brillio degli acini di uva, alla rotondità lucente della mela, del limone e della pesca, alla rugosità dei fichi, al distendersi o accartocciarsi delle foglie. Nell’equilibrio tra pieni e vuoti, nel rapporto reciproco dei colori, la canestra assume una vitalità intensissima quasi da indurre l’osservatore a stendere la mano.
«L’universo comincia con il pane» (Pitagora): non c’è infatti nessun altro alimento che abbia una tale forza simbolica tanto da essere largamente rappresentato nella pittura occidentale. Tra i più evocativi, l’affresco con la Bottega di panettiere ritrovato a Pompei, ora al Museo Archeologico di Napoli. C’è da dire anche che il pane è così ampiamente raffigurato, soprattutto per il significato che assume in molteplici episodi del Nuovo Testamento. Ma al di là di questo, una sua eccellente rappresentazione gustativa la si ritrova ne Il Cesto di pane del maestro del surrealismo Salvador Dalì. Il fondo nero che contrasta con il chiarore della tovaglia e della cesta consente un salto dalla pittura alla realtà e, grazie al sapiente gioco di luci, l’artista provoca nell’osservatore sinestesie visivo-gustative-olfattive ma anche tattili, tali da evocarne l’aroma, il sapore e la palpabile morbidezza.
Altro dipinto dotato di una personalità cromatica seduttiva è il Mangiafagioli di Annibale Carracci. Il dipinto rappresenta una scena di genere, racconta cioè del cibo attraverso la vita quotidiana. Carracci raffigura un momento quasi sospeso nel tempo dove l’attenzione si concentra su poche cose essenziali: la mensa frugale, il contadino che mangia portandosi alla bocca un cucchiaio colmo con tale foga che ne sgocciola il sugo. Evocativo è inoltre il gesto protettivo che il giovane compie tenendo la mano sulla pagnotta. La luce che proviene dalla finestrella esalta ogni particolare, sembra quasi un fermo immagine di un rituale sacro per il contadino, che, ultimata la sua giornata di lavoro, stanco, si appresta a ristorarsi.
Che dire della Vecchia che frigge le uova di Diego Velázquez: un gesto abituale che comporta la trasformazione di un cibo semplice in un cibo prezioso. L’olio, la cipolla, il coltello e il mortaio fanno immaginare la preparazione del soffritto di cui sembra avvertire l’odore in cucina.
Ma accanto a questi pochi esempi se ne potrebbero citare tantissimi altri come le pennellate che rappresentano gli alimenti tipici della realtà nordica dai pittori fiamminghi; gli scenari rotondeggianti di Botero; le tele post-metafisiche e non di De Chirico.
E allora, a quanto pare, l’apparenza non inganna: lo sanno bene Zeusi e Parrasio, entrati in competizione su chi sapesse meglio ritrarre la realtà attraverso l’illusione pittorica. Plinio il Vecchio, infatti, racconta nella sua Naturalis historia che Zeusi dipinse un affresco con dell'uva così reale che gli uccelli tentavano di beccarla. E chissà se il racconto non ha ispirato la nascita del Trompe l’oeil.
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