- Quando ho preso in giro l’accademichese, alcuni colleghi mi hanno detto che la deriva burocratica del linguaggio scolastico è peggio del linguaggio astruso degli articoli accademici
- Non sono d’accordo. Perché l’accademichese è un’antilingua fatta per essere incomprensibile, mentre il didattichese è una lingua delirante
- La sua incomprensibilità non è dovuta a una natura esoterica, ma semplicemente da un completo scollamento rispetto alla realtà
Di recente mi è capitato di prendere pubblicamente in giro il linguaggio volutamente astruso degli articoli accademici italiani di area umanistica: l’accademichese, un’antilingua con cui coloro che teoricamente dovrebbero fare un uso consapevole dell’italiano in realtà lo scempiano con espressioni ottocentesche, fioriture di avverbi barocchi e sintassi involute al limite dell’anacoluto.
Ne è seguita una levata di scudi: non per difendere l’accademichese, ma per dire che esistono lingue che sono assai peggiori. Dato che faccio l’insegnante, più di un collega (che è un modo per dire “due” facendoli sembrare una schiera) mi ha chiesto per esempio se non fosse assai peggiore la deriva burocratica presa dal linguaggio del mondo scolastico: il cosiddetto didattichese. Per semplicità, ho deciso di rispondere loro dalle pagine di questo quotidiano.
E la risposta è: no, non è peggio il didattichese.
Lingua esoterica
E il motivo è presto detto: l’accademichese è un’antilingua semplicemente brutta, mentre il didattichese è una lingua delirante, ed è pertanto inevitabile che le mie simpatie vadano tutte alla seconda.
Tanto più che il fine dell’orrenda involuzione accademichese è creare un linguaggio esoterico, accessibile solo ad alcuni specialisti, possibilmente solo quelli che condividono con lo scrivente strumenti interpretativi e lessico, escludendo tutti gli altri. È una lingua per non comunicare, per non farsi capire (forse anche per scongiurare il rischio che si correrebbe dicendo quel che si vuole dire in modo diretto: il più classico dei «tutto qui?»).
Una lingua che si compiace delle proprie idiosincrasie, e segnatamente dell’iterazione di certi stilemi affatto desueti (tipo l’uso di parole tecniche superflue, avverbi pleonastici, l’uso di “affatto” come rafforzativo positivo e la civetteria di qualche termine ricercato).
Ora, se l’accademichese ha un’incomprensibilità che è sgradevole e classista, il didattichese dal canto suo è incomprensibile in tutt’altro modo. Il suo disinteresse per la realtà è palese, ed è anzi la sua ragion d’essere. Il suo obiettivo è creare uno spazio aereo, autoreferenziale e completamente autonomo rispetto al mondo reale.
Termini baule
Il primo passo è stata la creazione di una neolingua in cui abbondano i termini-baule, che possono essere riempiti di qualsiasi cosa, e che quindi possono essere utilizzati in maniera sostanzialmente intercambiabile. È bene per esempio citare sempre le sinergie positive, trasformare i problemi in problematiche, i progetti in progettualità e dare l’impressione che si trovi sensato distinguere l’approccio pluridisciplinare da quello multidisciplinare, e la didattica personalizzata da quella individualizzata. La parola-baule fondamentale, la scaturigine di questo gorgo, rimane la “competenza”, che poi è la parola jolly attorno a cui si gioca tutta questa rivoluzione della didattica, una parola dall’aspetto innocuo e condivisibile, e tanto più condivisibile in quanto non dice niente.
(Quando ho fatto l’anno di prova a scuola ho dovuto seguire obbligatoriamente con gli altri neoassunti un corso sulla didattica per competenze: ci hanno diviso in gruppi e hanno costretto una trentina di adulti, talvolta attempati, a costruire dei cappelli di cartoncino di colore diverso, ciascuno raffigurante un diverso stile di apprendimento, e a parlare in modo diverso a seconda del cappello di cartoncino che indossavamo: questo avrebbe dovuto in qualche modo aiutarci a far capire Kant a una masnada di adolescenti che scoppiano di ormoni).
In ogni caso, nel frattempo, anche le competenze devono essere sembrate qualcosa di troppo concreto, non fosse altro perché la parola è italiana, e per questo oggi si preferisce parlare di soft skills.
Le sigle e la realtà
Questo progressivo allontanamento dal corrispettivo reale delle parole è un processo che si riscontra in ogni risvolto del sistema: per esempio fino a un paio di anni fa esisteva una cosa che si chiamava alternanza scuola-lavoro (che spesso i più devoti cultori del didattichese abbreviavano nell’ambigua sigla asl, o addirittura nell’enigmatica as-l). Al di là del giudizio sulla pratica in sé, quello che è stato considerato il suo maggior difetto era la chiarezza con cui indicava il suo oggetto: un periodo in cui si alternava alla scuola il lavoro.
Per questo, senza alcuna modifica sostanziale, si è preferito cominciare a chiamarla pcto, un acronimo che quattro professori su cinque non sono in grado di sciogliere (il che non costituisce un problema, visto che il nome in questa logica serve precisamente per occultare, e non per svelare). Bisogna dire poi che l’alternanza scuola-lavoro era una pratica estremamente contestata, mentre contro il pcto pare che nessuno abbia niente da obiettare.
(Un’amica straniera che ha vinto un concorso per insegnare in Italia senza aver mai frequentato prima le nostre scuole, ha rischiato seriamente di rassegnare le dimissioni dopo il famigerato collegio docenti del primo di settembre, che consiste in un minuzioso ripasso di tutte le angherie burocratiche a cui il corpo insegnanti sarà sottoposto nei successivi dieci mesi. Alla fine non si è licenziata, e oggi discetta di pon, rav, pdp, pei, pcto, pdf e dsa come una vera nativa).
Tra i più indicativi cambiamenti di significante che lasciano inalterato il significato spicca il caso relativamente recente della trasformazione del pof in ptof, una modifica introdotta a quanto pare solo per aggiungere all’onomatopea scatologica anche l’inevitabile sputazzo della venerabile collega di latino. (La t sta per triennale, per cui bastava dire che il pof andava rinnovato ogni tre anni, ma il mostro della proliferazione di acronimi va nutrito costantemente, e non è un caso che a farlo sia il ministero un tempo noto come Miur, poi diventato Mi per diventare qualche mese fa Mim).
Il mondo parallelo
Nel racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius, Borges immagina che attraverso la stesura di un’enciclopedia si arrivi a costruire un mondo parallelo al nostro, con regole autonome e completamente anti-realiste, che finisce col tempo per sostituire il mondo reale. Il fine del didattichese mi pare lo stesso: creare un mondo parallelo alla scuola arrivando a sostituire la realtà di quest’ultima con un fantasma fatto di termini impalpabili e privi di riferimento concreto, o meglio ancora da sigle che nessuno è in grado di sciogliere, e che si continuano a usare benché abbiamo ormai dimenticato il loro correlativo oggettivo, e anzi proprio perché quel correlativo oggettivo è ormai obsoleto, se non completamente evaporato.
Ecco spiegato perché, da buon calvinista (nel senso di Italo) ho un’innata diffidenza verso l’antilingua accademica, mentre, da antico borgesiano, apprezzo le sperimentazioni estreme e il paziente lavorio di chi tenta di creare un mondo volatile e irrealistico, fatto di sole parole e di nessuna cosa, come la splendida neolingua che migliaia di estensori ministeriali non cessano di cesellare, anonimi impiegati assorti nello sforzo collettivo di sognare all’unisono un mondo nuovo, perfetto, incomprensibile e disabitato. Per questo ho pensato di poter prendere in giro l’accademichese, e non mi sognerei mai di fare altrettanto con il didattichese.
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