«L’orrore! L’orrore!» Le ultime parole di Kurtz, alla fine del Cuore di tenebra di Joseph Conrad, sono l’epitaffio di un secolo di ottimismo: aperto nel 1789 con la promessa rivoluzionaria di un trionfo della ragione e del progresso, nel 1899 si chiude simbolicamente con la denuncia dei crimini coloniali di quella stessa ragione, di quello stesso progresso. L’orrore provato dal mercante di avorio è quello dell’uomo civilizzato che nel profondo del Congo belga riconosce la barbarie occultata dietro ai nostri fragili princìpi.

Nietzsche non aveva filosofato invano. Il secolo successivo non avrebbe fatto altro che reiterare quell’orrore; e all’altezza del 2021, osservando le immagini che ci vengono da un Afghanistan devastato da decenni di guerre ovviamente sempre in nome della ragione e del progresso, sembra già che possiamo mettere una croce anche sul Ventunesimo.

The Waste Land

In tutti questi anni l’ombra di Kurtz non ci ha mai abbandonati: basta pensare al modo in cui in Apocalypse Now John Milius e Francis Ford Coppola ne hanno riscritto il mito per raccontare la guerra degli Usa in Vietnam. Ma molto prima di loro un poeta, Thomas Stearns Eliot, aveva già pensato di convocare Cuore di tenebra per commentare un evento storico recente, la Prima guerra mondiale, scegliendo di mettere in epigrafe al suo poemetto del 1922, The Waste Land, proprio quella citazione – salvo poi cambiare idea e rinunciarvi.

La citazione di Conrad è soltanto uno dei numerosi “ritagli” entrati nella sofferta composizione del poema, e il fatto che sia stata infine cancellata dal palinsesto non la rende meno importante: la si intravede ancora in negativo, scaldando lievemente la pagina. È grazie alla nuova edizione curata e tradotta da Carmen Gallo per il Saggiatore che oggi possiamo penetrare nel cantiere eliotiano e lì trovarvi innumerevoli pietre d’inciampo e fili da tirare. Perché la Waste Land è precisamente questo: un cantiere, un palinsesto, forse anche un’imbarcazione che come quella di Cuore di tenebra risale verso un’orribile verità, a meno che non si tratti di una nave da crociera che dalla verità si allontana, portandosene in pancia gli ultimi frammenti rimasti.

Ecco, proviamo a vederla così. Non sembra esserci molto in comune tra la nave da crociera Costa Firenze, che nei suoi saloni riproduce le facciate rinascimentali della città toscana, e i versi di Eliot: la prima è la vetta del kitsch del nuovo secolo, mentre i secondi svettano tra le opere poetiche più importanti del Novecento. Eppure in entrambi i casi abbiamo a che fare con un collage di segni smontati e rimontati fino a perdere il loro significato originario, disposti in modo da produrre un discorso sul passato, forse persino un modo di trasmetterlo e tramandarlo.

A chilometri di distanza dalle coste italiane, la nave custodisce una certa idea, per quanto distorta, di quello che l’Italia è stata all’apice del suo fulgore; nella Waste Land il poeta americano colleziona le rovine di un’Europa annientata dalla guerra, da Dante a Baudelaire e Wagner, per portarle fino a noi barbari, da barbaro quale lui stesso è, per darne forse una degna sepoltura.

Oggi parleremmo di operazione “postmoderna”, ma Eliot incarnò semmai – assieme ad altri postmoderni ante litteram come Joyce e Pound – quello che i manuali chiamano “modernismo”. Un modernismo per giunta indubitabilmente conservatore, nel senso più essenziale del termine: attraverso la reinvenzione poetica si trattava di conservare le vestigia di una civiltà devastata. Ma devastata come, quando e in che modo? Questo è il problema. Ed è in fondo lo stesso problema di Conrad, lo stesso di Nietzsche: il problema di un’epoca storica fondata su basi troppo fragili per non sprofondare nell’orrore.

Leggere Eliot

Spesso tradotto con il titolo La terra desolata, il capolavoro di Eliot appare come un enigma da decifrare. Se è vero che i suoi versi continuano ad avere una spontanea presa sul lettore proprio grazie alla loro opacità, come un classico rock di Bob Dylan – e per questo basta vedere come il cantante Filippo Cecconi (Effe punto) li ha resi efficacemente in un EP disponibile su Spotify – è anche vero che sembrano continuamente promettere un senso, una scoperta, una rivelazione, che in assenza di un paratesto rischia di sfuggirci del tutto.

Ma come rendere leggibile Eliot, un secolo dopo? Rari sono i grandi testi del passato che possano essere letti senza mediazioni, che si tratti della Bibbia o delle opere dei filosofi, e di certo non fa eccezione l’esoterico poemetto. Ci prova, e diciamo subito che ci riesce benissimo, Gallo. Scegliendo e motivando il nuovo titolo La terra devastata, la traduttrice, curatrice e poetessa inserisce il testo di Eliot nel flusso della storia e della politica, presentandolo (anche) come un commento a caldo sulle cause della guerra e le conseguenze della pace. Non è “desolata” la terra del 1922, non è “guasta” in virtù di un vizio inerente, ma precisamente devastata da una serie di sfortunati eventi che ha origine lontanissima. Si, ma quale?

Gallo qui si ferma, ma ci ha fornito gli spunti giusti, le giuste leve da azionare: tocca a noi giocare. Poiché é ancora in un altro senso che Eliot è “conservatore” – ovvero nuota nell’acqua di quel pessimismo culturale, influenzato proprio da Nietzsche, che da lì a pochi anni si sarebbe fatto rivoluzione conservatrice. La sua è una visione ciclica della storia delle civiltà, comune all’epoca e resa persino più popolare dal successo del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler. Una visione che aveva proprio nella Rivoluzione francese e nel trionfo dell’illuminismo il suo punto di svolta e di rottura, anticipato dalla riforma protestante.

Responsabilità

Tra le righe di Eliot, che si sarebbe poi convertito al cattolicesimo, appare in trasparenza la lezione di Charles Maurras, nume tutelare della destra francese, che con il suo saggio L’avvenire dell’intelligenza aveva ispirato il poeta. Impolitica, la Terra devastata lo era dunque nello stesso senso in cui erano impolitiche le Considerazioni di Thomas Mann, pubblicate pochi anni prima, cioè nel senso di un rifiuto radicale di quell’idea di politica egualitaria, progressista, nazionalista, giacobina, caratteristica della cultura liberale dell’epoca, che parla sempre di pace ma prepara continuamente le guerre – da cui l’ironico “shantih” con cui si chiude il poemetto, cioè pace in sanscrito.

Come Mann, anche Eliot sembra attribuire a quella cultura la responsabilità di avere devastato l’Europa, portandola a un’assurda guerra tra nazioni, pure se guidate dal faro della ragione, forse proprio per quello. Vent’anni dopo si dovette riconoscere – e Mann lo fece – che la cultura conservatrice non era stata capace di risolvere il problema della rivalità tra nazioni, figuriamoci quello del nichilismo, anzi lo avrebbe se possibile peggiorato. L’orrore si era semplicemente levato la maschera del progresso: si era passati dalla padella illuminista alla brace fascista.
Qualcuno dirà che a forza di contestualizzare si rischia di perdere l’essenziale della poesia, ovvero ciò che non si lascia ridurre al contesto, ma la lettura del testo assieme al suo apparato ci convince dell’esatto contrario: non c’è esperienza di lettura più esaltante di quella che ci permette, o perlomeno ci promette, di decifrare uno dopo l’altro i suoi misteri, che sono poi i misteri della nostra storia. Quanto alla vocazione profetico-politica, Eliot chiude un’epoca che era iniziata con Schiller, proprio a ridosso della Rivoluzione francese. Le profezie nascoste nella Waste Land erano poi tanto sbagliate? Il tramonto dell’occidente è durato un secolo, con qualche momento esaltante, ma pare oggi difficilmente confutabile. Quanto alla devastazione, esternalità discreta della marcia della modernizzazione, ne abbiamo oggi sotto gli occhi la dimensione ecologico-ambientale.

Nel suo saggio del 1960 The waste makers, il sociologo Vance Packard già annunciava le conseguenze del consumismo sfrenato. Cioè, per citare Eliot là dove non lo citava Packard, una “waste land”: non banalmente desolata, non soltanto devastata, ma guasta e inquinata. Altro che shantih.

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